Teatro in video 29° appuntamento. L’ultima opera, incompiuta, di Luigi Pirandello ha incontrato negli anni numerosi tentativi di rappresentazione. Abbiamo scelto di approfondire le messinscene di Giorgio Strehler.
Dopo anni di lavoro, Luigi Pirandello delega ai posteri la conclusione per la sua ultima opera, I Giganti della montagna. Fu rappresentata per la prima volta a un anno dalla morte dell’autore nel Maggio Fiorentino del 1937 diretta da Renato Simoni (in scena, oltre Memo Benassi e Andreina Pagnani, anche un trentenne Salvo Randone) nel Giardino di Boboli, in accordo con il clima europeo dei grandi spettacoli all’aperto.
In relazione a questo “mito incompiuto” le ricostruzioni tentate (da parte del figlio Stefano, che ne ritrovò gli appunti, da studiosi che ne hanno tentato una riscrittura scevra dall’atto della scena, dunque non come autonomo gesto artistico ma come ricostruzione filologica) devono necessariamente fare i conti con l’estetica del non finito, la quale trovava la sua compiutezza già nelle sculture rinascimentali di Michelangelo, sfociando a cavallo tra Otto e Novecento (dunque coevo a Pirandello) nell’arte di Rodin. Le ultime battute incluse nel testo sono un reiterato urlo di paura, ma sono anche un ponte con l’Altro, costituiscono l’obbligo a non rimanere passivi, a rintracciare una propria visione; sono la verifica della poetica di un autore tanto vasta da toccare l’estremo della letteratura a discapito della resa scenica, fino al suo antipodo, verso la vittoria dell’autonomia dell’arte della scena.
Abbiamo scelto di approfondire le messinscene di Giorgio Strehler. Il Maestro pubblicò alcuni interessanti articoli sulla rivista culturale novarese Posizione, trattando il rapporto tra arte e vita e le problematiche relative alla trasmissione di questa al pubblico, partendo proprio dai I Giganti, la cui natura incarna lo scontro tra due visioni antinomiche. Quella pessimistica di Cotrone, il capo della banda degli Scalognati, autoesclusosi da una società che per lui non è in grado di comprendere più il teatro, e quella della contessa Ilse convinta invece della sua bontà pedagogica, in grado di parlare anche alla società contemporanea rappresentata dai giganti che vivono nella città. Strehler, che mise in scena questo testo per ben tre volte, passerà dalle grandi speranze della prima del 1947-48 (al posto del terzo atto venivano lette le parole di Pirandello) alle più tragiche versioni del 1966 e soprattutto del 1994 (di cui proponiamo il video integrale), nelle quali il sipario calava come una ghigliottina sul carro di Ilse morta. Celebrazione di disperazione e fede al tempo stesso, che sta a ciascuno di noi capire, accettare o respingere. Dobbiamo compiere anche noi la parabola degli estremi, «ritrovare una meraviglia incantata in quella fantastica camera dei fantocci, dove tutto il mondo del teatro si condensa misteriosamente» (dagli appunti del 1947) o «contrassegnare la fredda materia da cui con fatica e rischio si cava il sangue dall’arte» (1966); considerare la morte di Ilse e della poesia come «il vuoto della partenza creativa» (1966) o accettare che «nell’epoca dei Giganti è “umano” adeguarsi, non dare più messaggi, restare dei pagliacci che fanno ridere e niente altro» (1994).
Viviana Raciti
Gli appunti alle tre messe in scena sono raccolti nell’archivio online del Piccolo Teatro.
Gli articoli di Strehler sono riportati nel testo di Clarissa Egle Mambrini, Il giovane Strehler: Da Novara al Piccolo Teatro di Milano
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