Al Teatro Quirino Vittorio Gassman l’allestimento del Don Giovanni di Alessandro Preziosi tra le luci dell’intrattenimento. Recensione
Fin dalla sua prima apparizione dalla penna di Tirso de Molina nella Spagna secentesca, Don Giovanni è in assoluto uno dei personaggi più frequentati dalla letteratura, che nei secoli vi ha scavato all’interno la ricerca di ogni sorta di metafora, di mitizzazione e smitizzazione, di redenzione della società contemporanea. Nel 1665 Molière lo vestiva di un abito tragicomico offrendolo a un pubblico parigino ancora profondamente conservatore, tanto da vedersi obbligato a pubblicarne in prima edizione il testo censurato. La figura è quella del seduttore incallito, dell’ateo refrattario a ogni conversione in nome di una personale lotta non tanto nei confronti del puritanesimo quanto dell’ipocrisia che investe la classe dirigente, grazie alla quale ogni malaffare si insabbia in una mascherata di insinceri precetti morali.
Tra prosa, poesia, opera e operetta, la quantità degli allestimenti è impossibile da enumerare. Quello di Alessandro Preziosi preannuncia se stesso esternando velleità politiche, declinandosi in una parabola piuttosto incostante, quasi schizofrenica, in cui il “dongiovanni” scapestrato del primo atto, tutto vocine e risatine, si tramuta in una sorta di Caimano che lancia presagi sul futuro (e sul presente) funesto di questa società.
Nobili premesse, per uno spettacolo che tuttavia non riesce a scrollarsi di dosso la patina del puro intrattenimento. L’adattamento di Tommaso Mattei chiude in due tempi i cinque atti, assegnando a scene e battute pesi specifici troppo altalenanti, quando invece il personaggio messo a punto da Preziosi vorrebbe essere granitico nella propria posizione di spirito libero e di baluardo senza Dio.
Nei materiali, Mattei mette a margine: «La lingua è usata al servizio dello spettacolo con il preciso intento di sposare lo scorrere dell’intrattenimento con un discreto mimetismo dei contenuti». Purtroppo, stavolta, è il magro allestimento di Preziosi a togliere lustro a un lavoro pur sensato sul testo, liberando la scena del primo atto da ogni mobilio e costringendo così i personaggi a fluttuare sul pavimento lucido per un’ora buona di passeggiate in circolo e di improvvise diagonali verso il proscenio.
La scenografia virtuale di Fabien Iliou, stagliata dietro alle luci di Valerio Tiberi, schiaccia gli attori su quello che pare lo scenario di un rudimentale videogioco, con il Convitato di Pietra che annuisce “spixelando” e parla con la tenebrosa voce di un deus ex machina dall’estetica anni Ottanta. Come nella discesa all’inferno finale, mostrata sugli schermi in un Don Giovanni digitale che arde in una videoproiezione poco fluida. Altro elemento di disturbo, che solo a volte rende necessaria l’ormai consueta scelta del radiomicrofono, è la traccia musicale, che alterna brani di classica a fulminee picchiate in ritmi orientali o tribali, cancellando ogni coerenza.
La presenza segaligna, divertente e a tratti efficace di Nando Paone, in generale più magnetica di quella di Preziosi, non riesce a gestire uno Sganarello ridotto a una sorta di pignolo e lagnoso grillo parlante che lamenta sul medesimo tono ogni singolo gesto del padrone, cancellando il “tipo” quasi fisso che invece in Molière coronava il duo nella perfetta struttura della farsa.
Nonostante qualche tirata in cui il primo attore (perché lo schema registico è davvero quasi capocomicale) si dimostra in grado di maneggiare cambi di registro, il suo corpo rimane quasi sempre impassibile alle strette dell’animo, fasciato dagli abiti d’epoca in una mobilità quasi lignea, molto spesso mostrata solo a metà da misteriosi buchi di illuminazione del disegno luci. Così il brusco cambiamento cromatico del secondo atto, che introduce tavoli e poltrone dal tono livido e getta il tutto in un’atmosfera funebre, non è sufficiente a mostrare la falsa redenzione di Don Giovanni, la confonde piuttosto in un dettame scenico che toglie libertà agli attori e, cosa ancor più grave, al testo.
A farne le spese è soprattutto il personaggio di Donna Elvira, su cui – ricordiamo – Strehler incentrò un intero spettacolo tenendo Giulia Lazzarini al giogo di un Louis Jouvet (impersonato dal regista stesso) alla ricerca di una necessità tragica dell’azione. No, non si tratta di un richiamo malinconico alla bella regia critica che fu, ma del segnale, se non di un completo fraintendimento, di una sensibile mancanza. Fermo restando che si può ben fare a pezzi il testo del grande drammaturgo, ridurre il personaggio di Donna Elvira a una sorta di monaca indecisa neutralizza d’un colpo la vis polemica del protagonista così come le note di regia la disegnavano. E così, con lei, finisce in ombra l’intera presenza femminile, relegata nelle due contadinelle Carlotta e Maturina e nelle movenze da bambolina meccanica della serva Violetta, senza che per un momento le si lasci libere di esprimere la potenza del proprio simulacro.
Dov’è la ghignante minaccia di Molière? Dove la sua severa lezione su una morale che va in fumo in una degradazione autodistruttiva? Una platea gremita applaude il proprio eroe, rassicurata non tanto dalla sua comparsa, ma forse dalla sua capacità di aggirare con i balzi dell’intrattenimento gli ostacoli di questo capolavoro della letteratura teatrale.
Sergio Lo Gatto
Teatro Quirino Vittorio Gassman, Roma – in scena fino al 14 febbraio 2016
DON GIOVANNI
di Molière
traduzione e adattamento Tommaso Mattei
con Alessandro Preziosi, Lucrezia Guidone, Maria Celeste Sellitto, Roberto Manzi, Daniele Paoloni, Daniela Vitale Matteo Guma
con la partecipazione di Nando Paone
scene Fabien Iliou
costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Valerio Tiberi
musiche originali Andrea Farri
supervisione artistica Alessandro Maggi
regia Alessandro Preziosi
produzione KHORA.teatro, TSA Teatro Stabile d’Abruzzo