Franco Branciaroli con Dipartita Finale si ispira a Beckett e va in scena con Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai e Maurizio Donadoni. Recensione
Il più giovane dei tre, Maurizio Donadoni, se ne sta supino (e infatti questo è anche il nome del suo personaggio) su un lettino da campo tirato su alla meglio. Ugo Pagliai, con due grandi orecchini ad anello che gli imbellettano i lobi, è disteso su un letto matrimoniale rivolto verso gli spettatori, lo schienale rialzato e una copertina sulle gambe; scopriremo più avanti la sua cecità. Gianrico Tedeschi, lunghi capelli e barba da hippy, è il più anziano ma anche il più mobile: con leggerezza e autoironia attraversa in lungo e in largo il palco del Teatro Parioli sulla schiena ricurva, con passi piccoli, lenti o spediti. I tre sopravvivono in una baracca ai piedi del Tevere realisticamente ricomposta sulla scena da Margherita Palli con materiali di scarto, carrelli della spesa dentro i quali sono accatastati cuscini, poltrone a altri resti; vecchi pannelli in legno e plastica fanno da rivestimento, una finestra sulla destra, sempre chiusa, sarà l’occhio – cieco – verso la realtà esterna. Franco Branciaroli, anche autore del testo, ha creato una sorta di invenzione drammaturgica dichiaratamente ispirata a Finale di partita di Samuel Beckett. Dipartita finale, spettacolo del 2014 che arriva solo ora a Roma, è un attraversamento dell’universo simbolico dell’autore irlandese concepito con scrittura e sensibilità autonome. E l’operazione è davvero bizzarra: soprattutto perché quell’autonomia imprescindibile, per non rischiare di incappare in una brutta copia dell’originale, arriva di colpo a scompaginare la situazione con una cesura che colloca la seconda parte della commedia in un grottesco fuori dagli schemi, tratteggiato anche con geniale demenzialità.
Non ci scomponiamo infatti per le prime scene, sino all’entrata del quarto personaggio siamo all’interno del riconoscibilissimo “sistema Beckett”: il cieco dorme continuamente e non può camminare, l’altro gode di ottima salute nonostante l’età ma è perennemente insonne. Il triangolo si chiude con un altro dormiente che parla solo attraverso brevi sussurri alle orecchie del secondo. È lui che si farà portatore di un mistero in grado di far virare le riflessioni filosofiche ed esistenziali in una deriva quasi fantascientifica. La tipica distopia beckettiana – la fine del mondo o la sua attesa in un presente senza futuro che suggerisce scenari post apocalittici – è esplicitata sin da subito: c’è l’albero secco di Aspettando Godot, i dialoghi spezzati che alludono a qualcosa di misteriosamente lontano e i riferimenti alla fine del singolo e della specie. «Una volta mi chiedevi di ammazzarti. Ora hai paura di morire?» chiede l’insonne al cieco prima di arrivare di fronte a l’unica finestra della baracca e, senza aprirla, guardare l’orizzonte esclamando: «Il sole ci sta inghiottendo, la terra è una crostata». Ma appunto, già quella finestra che rimane chiusa dovrebbe essere per il pubblico una spia di allarme. Il deragliamento si completa con l’entrata in scena di Franco Branciaroli che interpreta la Morte: si presenta come Antonio Posalafalce (ricordate l’Antonio Posalaquaglia del Principe De Curtis?), rigorosamente in nero, peperoncini sulla giacca e falce nella mano destra. Da qui in poi la scrittura rompe gli schemi debordando in una comicità surreale e grottesca: Supino (Donadoni sostituisce Massimo Popolizio), quello dei tre che mai si era alzato e mai aveva parlato, ingaggia un ridicolo duello con la morte abbattendola e pronunciando così le sue prime parole ad alta voce in scena: «Mortacci sua».
A che cosa stiamo assistendo? È una farsa in cui ritrovare semplicemente omaggi e derive oppure un’acuta riflessione sulla fine? La Morte con il leggero accento di Totò, la parlata di Donadoni, giocata su una romanità sonoramente gutturale, con cui dar voce ad assurde tirate sull’apocalisse e quei gesti e ammiccamenti tipici di Gianfranco Funari: a cosa stiamo assistendo? Ce lo chiediamo sorridendo con gusto, anche quando si allude alla conquista dello spazio e una voce registrata –proveniente naturalmente dal mangianastri a bobine tipico di Krapp e con il timbro, malamente imitato, di Berlusconi – narra di pianeti vergini: «Giocheremo a fare gli dei, modificheremo il passato». Insomma ecco lo spettacolo che non ti aspetti, frutto di una scrittura non addomesticata (e pure il rientrare nei ranghi del finale disorienta ancora lo spettatore), capace tuttavia di non tralasciare la riflessione alta. Una produzione in grado di prendersi il rischio di un fallimento, certo con le spalle coperte da attori con l’applauso d’ordinanza a portata di battuta, ma comunque qualcosa di teatralmente destabilizzante, libero e divertente.
Andrea Pocosgnich
al Teatro Parioli di Roma, fino al 21 febbraio 2016
DIPARTITA FINALE
di Franco Branciaroli
regia di Franco Branciaroli
con in ordine anagrafico
Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli e Maurizio Donadoni
e con Sebastiano Bottari
scene Margherita Palli
luci Gigi Saccomandi