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Improvvisazione: una “cosa” da Appiccicaticci

Dopo aver visto al Teatro Petrolini di Testaccio il loro ultimo spettacolo Luigi la nuova “cosa” improvvisata degli Appiccicaticci, abbiamo deciso di parlare con Tiziano Storti e ci siamo fatti raccontare una modalità di fare spettacolo che ultimamente sta cercando sempre più di avvicinarsi al teatro.

Foto Ufficio Stampa
Foto Ufficio Stampa

Perché l’improvvisazione? Rischi e appigli di un mestiere che non è affatto improvvisato.

L’improvvisazione è un’arma a doppio taglio: ci si può muovere con libertà rispetto a uno spettacolo predefinito che possiede un suo copione, ma nello stesso tempo bisogna ricordarsi che il rischio di scivolare nella ripetizione o nella banalità è sempre in agguato. Per questo durante le serate è necessario mantenere un grande livello di tensione e di complicità col partner, da rinnovare continuamente. Uno schema libero solo in apparenza perché fondato su delle regole che bisogna saper infrangere.

Chi sono gli Appiccicaticci e qual è la loro storia?

L’Italia è arrivata in ritardo: la storia degli spettacoli improvvisati inizia infatti alla fine degli anni Settanta a Montréal con il primo match d’improvvisazione teatrale tenutosi il 21 ottobre del 1977. L’idea di Robert Gravel e Yvon Leduc era quella di portare il maggior numero di persone a teatro, in un paese dove invece la gente preferiva affollare le partite di hockey; fondendo le regole teatrali con quelle sportive, i due attori e registi sono stati capaci di creare una nuova forma spettacolare di intrattenimento. Spettacoli che io vidi per la prima volta in televisione negli anni Ottanta, trasmessi dal programma della Rai Palcoscenico. Anch’io ho iniziato con questo “format”, come anche i colleghi coi quali lavoro. Con il passare degli anni e degli studi abbiamo scelto però di allontanarci dal puro intrattenimento da cabaret cercando di dare ai nostri lavori una maggiore base teatrale per avvicinarci alla long form che fonde insieme diversi tipi di linguaggi (comico, tragico, grottesco). Il risultato è stato quello di creare spettacoli improvvisati ma in grado di raccontare storie dalle diverse sfumature. Poi è ovvio che continuiamo coi match d’imprò, a insegnare nelle scuole e anche a lavorare con l’improvvisazione nelle aziende (Wind, Valda, P&B, Autostrade Italia). Il teatro d’impresa è utilissimo negli esercizi formativi rivolti al personale.

Nel vostro spettacolo colpisce sin da subito la complicità con il pubblico: appena avete chiesto alla platea una lettera e poi dei nomi che l’avessero per iniziale, non c’è stata nessuna remore e subito si sono levate più proposte. Tornando proprio al nome scelto: esso possiede la funzione, per così dire, di detonatore scenico o invece è determinante per la costruzione dello spettacolo in tutta la sua interezza?

Ormai si è creato un rapporto di familiarità e conoscenza con gli spettatori. Il pubblico viene a vedere i nostri spettacoli e sa che dovrà dare il suo contributo per la riuscita dello stesso. La richiesta delle lettere dell’alfabeto ci permette di evitare la ripetizione e possiede entrambe le funzioni, dipende infatti dalla piega che assume il lavoro durante quei sessanta minuti. Da una parte il nome ci aiuta ad avviare la narrazione come idea di partenza, dall’altra invece può rimanere semplicemente un riferimento da tenere in considerazione e poi la storia può proseguire autonomamente.

Si delineano più filoni narrativi che poi vengono conclusi nel finale. Qual è il metodo che sussiste? Vi sono azioni, personaggi, ambientazioni che ricorrono?

Non vi è un modello specifico che seguiamo, alcune storie possono tornare sia in diverse repliche che nello stesso spettacolo, con quelle che sentiamo possano funzionare con il pubblico ci lavoriamo e le portiamo avanti durante la narrazione. Vi è ad esempio la ricorrenza di veri e propri “tormentoni” ma tutto dipende dalla natura della serata, rispetto alla quale siamo in ascolto continuo. Luigi da questo punto di vista è uno spettacolo smart, facilmente vendibile, che non prevede nessun tipo di riscaldamento e sta andando molto bene. È anch’esso figlio di un format americano chiamato Harold impostato proprio sulla rigenerazione continua di una storia, il cui avvio è suggerito dal pubblico. Ogni nostra replica vede poi la partecipazione di attori diversi, tutti colleghi che abbiamo conosciuto durante la nostra formazione.

A proposito di formazione, avete lavorato anche con maestri dell’improvvisazione internazionale. Si possono delineare delle differenze con la “nostra” tradizione?

È una bella ma difficile domanda perché le differenze ci sono e sono sempre in divenire, mescolandosi tra loro, traendo spunto, copiando… Fondamentalmente si distinguono tre filoni, i più importanti: l’anglofono è molto incentrato sulla relazione tra gli attori, bravissimi a tenere la scena in due tre persone; il francofono è quello storico e parliamo di improvvisazione a grandi livelli in grado di partire da una tematica e sviscerarla articolandola su diversi piani di racconto. Anche il filone sudamericano sta prendendo piede, grazie all’apporto di una componente surrealista e onirica capace di strutturare un determinato immaginario. E poi ci sono i diversi format imprò: il match/gioco, il musical, il giallo, lo spettacolo amatoriale.

Lucia Medri

LUIGI la nuova “cosa” improvvisata degli Appiccicaticci
con Tiziano Storti, Susanna Cantelmo, Antonio Contartese, Antonio Vulpio, Luca Gnerucci, Fulvio Maura
Musiche da vivo Maestro Andrea Torti
Locandina e grafica Marta Galli
Tecnico Audio Fabio Serra
Ufficio stampa Rocchina Ceglia

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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