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Fibre Parallele: dieci anni di resistenza, fede e stoltezza

La compagnia pugliese Fibre Parallele festeggia i suoi dieci anni di attività con un focus su tutta la sua produzione, dieci giorni di spettacoli al Teatro Kismet e all’Abeliano di Bari. Intervista a Licia Lanera e Riccardo Spagnulo

 

foto Arianna Gambaccini
foto Arianna Gambaccini

Come è nata l’avventura Fibre Parallele?

Riccardo:
Io e Licia ci siamo conosciuti all’Università nel 2003, al Centro Universitario Teatrale di Bari e lì abbiamo iniziato a fare un po’ i “ribelli” cercando qualcosa che fosse anche al di fuori dell’offerta laboratoriale, tanta era la fame e la voglia. Ad un certo punto abbiamo tentato di entrare nelle scuole teatrali, ma senza successo; tuttavia dopo la delusione è subentrato lo spirito combattivo di Licia, così è nata la volontà di fare qualcosa da noi il cui primo esito è stato un adattamento di Zio Vanja visto in una chiave personale, la nostra prima palestra di artigianato teatrale che ci ha visti impegnati su tutti i fronti, non soltanto su quello scenico. Mangiami l’anima e poi sputala è stato il punto propulsivo, d’inizio, la sperimentazione di uno spettacolo costruito da zero: il primo nel quale io sono intervenuto con la scrittura, il primo in cui eravamo soltanto io e Licia in scena. Poi, all’incirca ogni due anni ne abbiamo creati nuovi, ciascuno un punto di snodo.

Che rapporto c’è tra la scrittura e la scena?

R: Parlo di scrittura di scena proprio perché i nostri spettacoli, soprattutto i primi, non sono figli di una drammaturgia preventiva, ma hanno subito un processo, sono nati strada facendo, fra prove, litigi, riappacificazioni, chiarimenti, un modo di mettersi prima di tutto in comunicazione tra due teste creative. Per noi c’è stata sempre questa fascinazione della parola sia per la scelta dei dialetti, sia nei confronti di una lingua che potesse essere identitaria ma anche un ponte per descrivere atmosfere. L’incontro col dialetto per noi è stato naturale, a partire dall’osservazione delle persone per strada, nella vita di tutti i giorni, le voci e i rumori che la abitano ritornano nell’atto creativo. Poi ci siamo specializzati nella definizione dei compiti all’interno della compagnia anche per far chiarezza su ruoli e responsabilità, nonostante l’ideazione degli spettacoli sia una cosa comune e non la necessità di uno solo, per cui Licia si è occupata più di drammaturgia scenica e io di scrittura. Soprattutto nell’ultimo spettacolo, La beatitudine, come pure ne Lo splendore dei supplizi, questo work in progress è diventato più una scrittura e poi una verifica che una miscellanea come agli inizi.

In questi giorni festeggiate i vostri primi dieci anni di attività ma anche il contributo ministeriale per le imprese di produzione under 35 da parte del FUS. Che senso hanno per voi questi due risultati?

Licia: Per noi questo contributo rappresenta un passaggio verso un minimo di stabilità e quindi verso la possibilità di affinare le referenze, perché pagando la gente migliora la qualità di quello che fai. Io non credo alla favola dell’arte svincolata dal mondo economico, dalle pubbliche relazioni, dalle commissioni, dai sovvenzionamenti, ma allo stesso tempo ci tengo molto che la parola impresa non si mangi la ragione per cui siamo qui, la ragione artistica. Devo dire che i numeri che abbiamo come under 35 sono abbastanza gestibili, considerando che noi siamo in un momento di grande esplosione, di tournee, quindi non facciamo fatica a raggiungerli e allo stesso tempo ci danno la possibilità di creare quel tappeto che ci permette di dare stipendi ai nostri collaboratori, di poterli dare a noi, così da chiedere alle persone con cui lavoriamo non di dedicarci i ritagli di tempo ma totalmente. Tuttavia è ovvio che tra tre anni terminerà il “periodo di incubazione” e i numeri richiesti diverranno più alti. Spero che la parola impresa non sia troppo esagerata perché a volte il rischio di dover raggiungere i numeri ti porta ad avere fretta su altre cose, i tempi dell’arte non sono i tempi della rendicontazione, i primi sono tempi che puoi decidere ma fino a un certo punto. Io sono abbastanza pragmatica e veloce quando devo preparare uno spettacolo, però so bene che c’è un tempo da rispettare, mi auguro non ci ritorni come un boomerang. Credo che per ora sia qualcosa di molto importante, la possibilità di fare meglio. Ma per me “fare meglio” implica sempre “fare” la questione artistica.

Parlando di tournee, i vostri spettacoli sono stati rappresentati anche fuori dall’Italia. Cosa vuol dire fare teatro all’estero per voi?

L: All’estero o vai in grossi contesti, importanti, protetti economicamente, oppure vai da solo: ci sono migliaia di bandi e bandini, ti paghi tutto e dici di aver avuto un’esperienza all’estero. Noi questa seconda ipotesi non abbiamo mai potuto permettercela, fin dal nostro spettacolo iniziale, per via del numero degli attori o della presenza di scenografie. Abbiamo sempre dovuto cercare la prima via che richiede un grande impegno; poi chiaramente ci sono già i nomi più noti, per cui pochi sono disposti a scommettere su una compagnia giovane che per altro fa “drammaturgia”, “spettacoli parlati”. I contesti mediante i quali ci siamo mossi sono stati una volta all’interno dell’allora ETI, un’altra grazie ad un progetto speciale pugliese, mentre in un caso fummo proprio scritturati dal direttore artistico Jean-Louis Colinet, innamorato del teatro italiano e di un certo tipo di teatro del sud, politico, che si incuriosì parlando di noi con Grifasi, venne apposta in Puglia a vederci e poi ci chiamò al Festival de Liège. All’estero ti trattano molto bene, giri in teatri enormi, noi abbiamo avuto la fortuna di fare spettacoli in teatri di 800, 1000 posti, tutti sempre pieni. È bello vedere come il “tuo” mondo viene percepito dall’altro lato dell’Europa, ad altre temperature, al freddo di Bruxelles o di Berlino. La ricezione è stata ottima, noi abbiamo fatto prevalentemente Furia de sanghe, che secondo Riccardo è il più glocale, è il nostro spettacolo più incastrato nel contesto barese, in dialetto, ma è così comprensibile sia a Foggia che in Belgio che alla fine diventa assoluto. Lo spettacolo vive di altri linguaggi, quelli del corpo, dello sguardo o del suono linguistico, della lingua barese incastrata con musica di Demetrio Stratos. Non è solo il fascino dell’esotismo, ti accorgi che le periferie parigine sono come quelle di Bari, della Macedonia, ti riconosci.

Cosa significa invece lavorare in Puglia?

R: In questi anni la Puglia ha fatto dei passi in avanti – soprattutto con le residenze –, si è strutturato il sistema, paradossalmente dall’altra parte di nuove energie creative ce ne sono state sempre meno; prima avvertivamo un tessuto culturale più vivo mentre i centri erano pochi, mentre adesso la situazione si è capovolta. In questo scenario noi abbiamo deciso di fare un po’ gli outsider, non prendendo in gestione teatri con i conseguenti obblighi burocratici e gestionali – un’attività che se non viene gestita molto bene, ammazza l’arte. Proprio nel momento in cui c’era questa voglia da parte di coloro che volevano trovare un po’ più di stabilità, noi volevamo volare, quindi abbiamo preso un furgone per portare in giro i nostri spettacoli. Dall’altra parte negli ultimissimi anni sono cambiate un po’ di cose, abbiamo trovato spazi un po’ istituzionali, dieci anni di duro lavoro i cui risultati si sono iniziati a vedere soltanto verso la fine. Ci sono degli artisti molto validi e interessanti come Roberto Corradino, Tonio De Nitto, Christian Di Domenico che sono in qualche modo una frangia di confronto artistico continuo per noi.

In Italia, soprattutto nel teatro di prosa, non è una pratica usuale, ma per voi, che proprio in occasione di questo decimo compleanno state presentando una retrospettiva di tutto il vostro teatro, cosa vuol dire riprendere spettacoli fatti a distanza di parecchi anni?

L: Noi li abbiamo tenuti quasi tutti a repertorio, tranne Mangiami l’anima, che abbiamo smesso di fare credo due-tre anni fa, e Duramadre, che ha avuto una vita breve poiché si trattava di uno spettacolo impegnativo sotto diversi aspetti, complicato da fare e economicamente molto dispendioso; invece 2 (due) o Furie de Sanghe continuiamo a farli. A parte quando ogni tanto sopraggiunge la tentazione ipercritica di guardarli a distanza di anni e rimanerci un po’, in realtà siamo molto a favore del repertorio, non sono d’accordo sul far morire gli spettacoli se hanno ancora un senso di vita. Costano davvero tanta fatica! Del resto continuano a chiederceli, dunque anche questo ci spinge a non abbandonarli. Difatti non solo qui in Puglia, ma questo #10annifibre continuerà con altre tappe in tutta Italia; non faremo di seguito tutti gli spettacoli ma riprenderemo Mangiami l’anima, (2) due, Furie de Sanghe, Have I None, dunque ricominceremo a fare anche spettacoli che non facevamo da un po’ di tempo. Dato che non siamo in scena in teatri da mille posti, che lasciano pensare che oramai lo spettacolo sia bruciato, più repliche si fanno e meglio è. Ogni spettacolo dovrebbe fare almeno tre, quattorcento repliche. Sinceramente, ne possiamo fare altre duecento! Solo che stiamo invecchiando [ride], per Furie de Sanghe sono diventata vecchia, magra, fuori ruolo per la ragazzina tracagnotta. La battuta «si avut’ le cose» tra un po’ dovrò cambiarla in «si avut’ la menopausa»!

Che cosa consigliereste ad una giovane compagnia?

R: Recentemente siamo stati al convegno di Altre Velocità per i loro dieci anni di attività e  anche in quel caso è venuta fuori questa questione. Credo che sia naturale un ricambio, dunque lecito chiederci dall’esperienza dei nostri dieci anni che cosa ne abbiamo tratto. Per fare le cose ci vuole tempo e non bisogna mollare la spugna subito, il nostro percorso è stato contrappuntato da delusioni, proprio Mangiami l’anima fu rifiutato al Premio Scenario, non arrivò nemmeno in finale e ci dissero che eravamo inesperti, che non avremmo mai potuto finirlo. Ecco, se ci fossimo fermati a quel pomeriggio non saremmo qui. Dunque resistenza, che fa rima con due parole che abbiamo utilizzato per intitolare la raccolta dei nostri testi da  poco pubblicata da Editoria & Spettacolo: fede e stoltezza. Fare teatro è stare in bilico tra questi due estremi, è una cosa fuori dal tempo, ha i suoi tempi, le sue leggi, le sue visioni ed è per questo che va salvaguardata. Fede e fiducia nella potenza e nel valore del teatro, ma anche stoltezza, perché sembra che il mondo vada da un’altra parte, è una rincorsa continua, bisogna essere anche un po’ incoscienti, avere la capacità di buttarsi senza sapere dove si va a finire.

L: La resistenza è una parola i cui significati, tutti, sono ben incastrati nel lavoro di una compagnia: da quello politico a quello fisico; è come essere degli atleti, è necessaria una preparazione continua. Bisogna pensare a tutto, anche adesso, mentre stiamo per andare in scena, veniamo da un periodo faticoso di prove e abbiamo una squadra che lavora con noi, dobbiamo sapere e fare tutto, dal cambiare una gomma del camion a come scrivere uno spettacolo, dall’F24 ai nomi dei proiettori. Soprattutto, ogni cosa ha un tempo, anche se hai conquistato qualcosa non ti puoi fermare, devi sempre andare avanti. E su questa resistenza si misura l’entità del tuo stare. Io credo che possa esser riservato a tutti un posto nel teatro. Una volta, io e Riccardo eravamo ragazzini, non avevamo ancora nemmeno iniziato l’esperienza di Fibre e all’Università venne un attore, anziano già quindici anni fa, e quando esprimemmo il nostro desiderio di fare il suo stesso mestiere lui ci disse «ma chi ve lo fa fare! Ve lo sconsiglio!». Anche nei momenti peggiori io non sconsiglierei di fare teatro, se si ha questo fuoco dentro non si può mollare.

Viviana Raciti

FOCUS FIBRE PARALLELE 12 – 24 Gennaio 2016

Mangiami l’anima e poi sputala 12- 13 gennaio – Nuovo Teatro Abeliano Bari
2 (due) 14 – 15 gennaio – Nuovo Teatro Abeliano Bari
Furie de Sanghe 16 – 17 gennaio – Nuovo Teatro Abeliano Bari
Have I None 19 – 20 gennaio – Teatro Kismet OperA Bari
Duramadre 21 – 22 gennaio – Teatro Kismet OperA Bari
Lo splendore dei supplizi 23 – 24 gennaio – Teatro Kismet OperA Bari

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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