Al Teatro Ambra alla Garbatella il debutto di Avrei voluto essere Pantani, uno spettacolo di Davide Tassi con la partecipazione di Alessandro Donati. Recensione
Marco Pantani era un dio. Del ciclismo, dello sport, della scena. Raccontare un personaggio che ha fatto del proprio nome bandiera, della sua immagine bandana da indossare e della sua fine tradimento da parte di un sistema malato e di sé stesso, comporta delle scelte. Soprattutto perché lo sguardo che si vuole intercettare è quello di una lente non a fuoco, puntato sulla storia di un uomo mai pienamente definita e compresa, parabola confusa tra la cronaca e la passione che a Pantani teneva legati, tutti, tra i successi nel ciclismo, gli infortuni, lo scandalo del doping e la sua scomparsa.
Davide Tassi, al debutto di Avrei voluto essere Pantani tra le salite del quartiere popolare di Roma svela il respiro del suo ultimo spettacolo sul palco del Teatro Ambra alla Garbatella. È un respiro lungo, attento, che non scade mai nella strumentalizzazione ed evita le buche che in un percorso del genere si aprono ai lati e al centro della strada nonostante lo spettacolo non esiti ad arrivare fino in fondo. Lo si capisce sin da subito, dalla dichiarazione di intenti delle prime battute del suo personaggio che dice molto anche sulla scelta dell’autore «Io ho corso a fianco dei migliori, alcuni tra i più grandi di sempre come Indurain, Tonkov, Ulrich, Armstrong ma se avessi potuto scegliere… avrei voluto essere Pantani». Una scelta dettata dalla passione, che della passione conserva l’immagine del mito e ne rispetta quella dell’uomo: avrei voluto, ma non lo sono stato. Poi, messa a fuoco la lente, inizia a parlare, accompagnando lo sguardo del pubblico lungo un monologo che diventerà dialogo nell’incontro con Alessandro Donati.
È la voce narrante a definire il legame con la propria storia. Davide Tassi esercita da subito quel movimento che permette a lui e al suo spettacolo di continuare a correre: si mette al lato di Pantani, così da non farsi travolgere e da poter osservare senza dover continuamente controllare e correggere l’inafferrabilità del campione lì dove nessuno, nel bene e nel male, è stato in grado di seguirlo. Non è il pirata a parlare infatti, ma è uno dei gregari, uno qualsiasi di quei ciclisti che corre una vita intera senza mai vincere una gara, che compie il proprio dovere sin dal primo chilometro e che avendo corso in quegli anni nelle traiettorie del più grande può ora scriverne un vangelo dell’ascesa e della caduta.
L’arroganza e il talento schierati negli esordi con la Carrera, le fughe del 1994 su quei 188 chilometri di salite del Mortirolo battezzate dai giornali come “il giorno della magia in cui si è visto sbocciare un campione”, poi la jeep contromano durante la Milano-Torino, il gatto che attraversa la strada durante il Giro del ’97 e un Pantani che non può essere sconfitto dal suo corpo, né dal dolore né dalla fatica: infine la vetta, la vittoria al Giro d’Italia e al Tour de France, fino a quel giugno del 1999 quando a Madonna di Campiglio l’ematocrito di Pantani sarà trovato al 52,9% dai controlli dell’UCI.
Da lì un’altra storia, anche quella nota a tutti con ipotesi di scandali e complotti, fino a che lo spettacolo incontra il cameo di Alessandro Donati. E lo incontra due volte, sulla scena con il gregario che fa i conti con la percezione di sé stesso «eravamo dentro un perenne autoinganno al punto che non capivamo più se doparci era la regola o il raggiro» mentre il sangue diventava «come una marmellata, col rischio di infarti, ictus, con ventitré ciclisti morti nel sonno e decine operati di trombosi»; e nel testo l’incontro è con l’autore, che ascolta e da voce a chi della battaglia alle irregolarità sportive e al doping ne ha fatto una missione. La lunga ricerca di Davide Tassi trova una svolta nel libro Lo sport del doping. Chi lo subisce, chi lo combatte (Edizioni Gruppo Abele, 2013) dell’ex preparatore della nazionale di atletica e oggi allenatore di Alex Schwazer, e nelle sue parole il pubblico ritrova la verità di un periodo oscuro di cui gli atleti sono stati le prime vittime.
Un tavolo, una sedia, un paio di birre e degli appunti sono i pedali sui quali si appoggia Davide Tassi — che avevamo avuto modo di apprezzare ne L’Intruso — in un’interpretazione che sussulta in maniera positiva nei momenti in cui l’attore riesce ad alternare il passo tra la narrazione e l’affondo, imprimendo il giusto pathos, accennando a un’emozione che lo stomaco del pubblico sarebbe ben disposto a ricevere in maggior dose. La recitazione di Donati è autentica, perché autentico è il suo sguardo ed esemplare il suo vissuto; la regia di Francesca Rizzi è ordinata, silenziosa come di chi sa mettersi in ascolto. Nonostante l’emozione e la rabbia siano ancora sospese nel debutto, forse anche perché diluite dallo spazio ampio del Teatro Ambra alla Garbatella, e ci siano dei margini di miglioramento nel riuscire a trasmettere la passione del personaggio dietro la lucidità dello spettacolo, Avrei voluto essere Pantani è già un documento solido, di impegno artistico e di presa di posizione, lontano dall’ammiccare al complotto, dal cavalcare l’immagine di un personaggio, persino dal cavalcare la sua bici che Tassi raggiungerà solo nel finale regalando al controluce del teatro il coraggio e la delicatezza della sagoma di un alieno «Pare una presenza che appare e scompare, come fosse proiettata da un cono di luce che di tanto in tanto si oscura».
Luca Lòtano
Teatro Ambra alla Garbatella, Roma – 12/17 gennaio 2016
AVREI VOLUTO ESSERE PANTANI
di e con Davide Tassi
con la partecipazione straordinaria di Alessandro Donati
prodotto da Rapsodie Production
in collaborazione con Teatroavista