Al Teatro della Tosse di Genova debutta in prima nazionale Il Macello di Giobbe. Intervista a Fausto Paravidino
C’è un tempo e c’è uno spazio specifico che contamina il processo di creazione di uno spettacolo. Un tempo come cambiamento materiale e sociale, e uno spazio che di questo cambiamento si fa specchio e contenitore. A quasi due anni dalla sua scrittura, e a qualche centinaio di chilometri dalle prove nel Teatro Valle Occupato, lo spettacolo di Fausto Paravidino Il Macello di Giobbe nel suo debutto italiano (dopo quello europeo a Bruxelles nell’ottobre del 2014) vive pienamente la complessità di queste due nozioni, dilatate dagli eventi che hanno seguito lo sgombero dell’11 agosto e la mancata messa in scena fissata per il settembre del 2014. In prima nazionale in questi giorni a Genova come produzione della Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, il testo di Paravidino, nato dalle suggestioni del palco e della platea del teatro romano, porta così con sé anche l’esperienza della creazione collettiva vissuta all’interno del Laboratorio Crisi, a Roma. E da Roma chiamiamo Fausto Paravidino, il pomeriggio prima e la mattina dopo questo lontano debutto. Quali erano allora, e quali sono oggi le forze in gioco di questa “crisi”? E quali di queste forze si trovano nel “macello” biblico e attuale di Giobbe? Dall’altra parte del telefono, a Genova: «Quella che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo è una crisi strutturale, non è un punto di ripartenza, come possono essere state le crisi del ‘900. Ora è l’unico sistema che conosciamo, ossia quello del capitalismo, ad essere in crisi; nel momento in cui viviamo la trasformazione da un economia di mercato a una società di mercato viviamo in una realtà nella quale il denaro diventa simile a Dio e questa crisi assume così una connotazione culturale, quasi religiosa, con gli incomprensibili meccanismi della finanza a costituirne un’antiteologia. Da qui il terreno comune con la crisi di Giobbe, un personaggio che si ritrova a dover rispondere all’enigma del dolore, al sacrificio e all’inspiegabilità del bene e del male».
Nato come scrittura in uno spazio nel quale poi non è stato rappresentato, cosa vuol dire debuttare con questo spettacolo a Bruxelles in Europa, e poi a Genova in Italia?
La realtà del Valle è molto connotante e importante per Il Macello di Giobbe, però dopo vent’anni che faccio tournée la dialettica tra il teatro nel quale è stato allestito uno spettacolo e quello dove andrai il giorno dopo fa parte della mia vita. Sicuramente vuol dire portare un lavoro e il suo contenuto in spazi diversi. Da un lato è importante che il lavoro riesca a girare e dall’altro chiaramente dobbiamo farci delle domande.
La creazione ha potuto godere di un tempo necessario, dilatato, per sviluppare e aggregare il tuo lavoro e la tua, vostra, ricerca sull’economia e la religione con economisti e teologi ospitati dal Laboratorio Crisi. Poi un altro lasso di tempo, quello tra il debutto a Bruxelles e questo debutto a Genova. Che ruolo hanno avuto questi due periodi di tempo?
È stato un tempo di creazione, contaminato da suggestioni diverse, da una creazione collettiva di movimento, musica, assieme alla coreografa Giovanna Velardi e il compositore Enrico Melozzi. Poi c’è stato invece il tempo per elaborare un lutto, quello della chiusura di un’esperienza, questo giustifica i due anni dal primo debutto a Bruxelles a quello di oggi a Genova. Ognuno ha vissuto a suo modo questo passaggio. Anche lo spettacolo è cresciuto e cambiato, non è un anno e mezzo qualsiasi; ma dobbiamo per forza fare rispetto a quello che siamo adesso, ci sono delle sostituzioni e non abbiamo abbandonato la ricerca che continua e continuerà.
“Perché?” La domanda che si fa Giobbe davanti al sacrificio. Tema assoluto della tua ricerca è “il perché del male”,“come mai esiste il dolore”,“il sacrificio”, hai trovato una risposta?
Il libro di Giobbe è un libro molto interessante, nega un po’ tutto ciò che ci viene detto su Dio dal catechismo, nega cioè l’immagine di un Dio che ci premia o ci punisce con il bene o con il male a seconda dei nostri comportamenti, sia qui che nell’aldilà. Il catechismo cerca di spiegare, nel libro della Bibbia si descrive e basta. Il male non serve a niente, non sappiamo da dove viene, se dagli uomini o se da Dio, ognuno chiaramente risponde secondo il suo credo. Il libro ci dice molto tra le righe, però, che qualcosa possiamo fare: il male lo possiamo sopportare, e prenderne il bene: dopo tre giorni di silenzio, dopo che è stato punito ingiustamente, Giobbe trasforma l’esperienza del male in poesia e filosofia. Non è molto, ma è l’unica cosa che possiamo fare.
Oltre il silenzio di Giobbe, il linguaggio poetico e quello della prosa si intrecciano.
Si, è uno spunto che viene dal classico, da Shakespeare, frutto della ricerca fatta durante il Laboratorio Crisi; mi interessa questo modo di fare teatro, che poi è quello che non riusciamo più a fare: un teatro che si rivolga al signore e al popolano, intrecciando il tono poetico e la prosa, alternando cioè la narrazione tra due registri, in “un teatro popolare alto”. Trattando il pubblico come un consumatore, invece, si individuano dei target, per cui generiamo un teatro commerciale e questo non ha nulla a che vedere con il teatro popolare; è un teatro becero che insegue il gusto televisivo, mentre l’altro teatro, quello che dovrebbe essere il teatro d’arte, si è specializzato nel parlare ad una borghesia che crede di essere intellettuale.
Com’è stato accolto il lavoro a Bruxelles e com’è stato accolto a Genova? Quanto è cambiato da allora?
A Bruxelles il pubblico era molto curioso; assistendo a un progetto di un teatro occupato forse si aspettava altro, ed è rimasto sorpreso dalla pièce. Questo spettacolo è per tutti, perché parla di archetipi, e al pubblico belga è piaciuto molto; le reazioni sono state vive nonostante fosse sottotitolato. A Genova ieri sera…è stato piacevole recitare in italiano per un pubblico che potesse seguire il tutto nella propria lingua. Sono piuttosto contento, anche se il fatto che sia andata molto bene mi lascia a maggior ragione un senso di amarezza in generale per i miei timori sul futuro del nostro teatro.
Come ha reagito il pubblico al linguaggio di cui parli?
In sala lentamente è successo quello che speravo: l’inizio può spiazzare, perché è uno spettacolo che assomiglia un po’ a tutto, ma che non assomiglia a niente. Dal prologo con la pantomima dei due clown che raccontano la storia per immagini, si passa alla storia principale e poi ai versi. Il pubblico ha seguito moltissimo, nonostante si sia trovato davanti un cambio di forma frequente; l’attenzione della gente impiega del tempo a capire che spettacolo stia vedendo, ma come speravo la sala è riuscita a entrarci dentro, in maniera naif, fino a fare un tifo teatrale per i “buoni”, dopo aver cercato di riconoscerli. La sensazione, dopo ieri, è che l’esperimento di questa ricerca di un teatro popolare che però sia anche alto possa perfettamente riuscire.
Roma? Forse sarà la risposta finale per Giobbe?
Chi lo sa. Mi piacerebbe molto, ma non sono davvero fiducioso e speranzoso rispetto alla rinascita culturale del nostro paese e della nostra capitale, e il teatro dov’è nato lo spettacolo mi sembra sia ancora chiuso; a me piacerebbe molto tornare. Per ora, la fotografia del presente rispetto alle prossime repliche è questa: 3 date in Italia e 12 all’estero.
Luca Lòtano
Teatro della Tosse, Genova 7-9 gennaio 2016, ore 20.30
Prima nazionale
IL MACELLO DI GIOBBE
testo e regia Fausto Paravidino
con Emmanuele Aita, Ippolita Baldini, Federico Brugnone, Filippo Dini, Iris Fusetti, Aram Kian, Fausto Paravidino, Barbara Ronchi, Monica Samassa
disegno luci Pasquale Mari
costumi Sandra Cardini
scene Guido Bertorelli, Marco Guarrera
musiche composizione collettiva a cura di Enrico Melozzi
coreografie Giovanna Velardi
maschere Stefano Ciammitti
assistenti alla regia Maria Teresa Berardelli, Camilla Brison
Uno spettacolo del Teatro Valle Occupato – Fondazione Teatro Valle Bene Comune
Produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse