Robert Lepage mette in evidenza la necessità del teatro, un atto di resistenza nella Francia degli attacchi terroristici
Lione è ancora scossa dagli attentati terroristici di Parigi quando incontriamo venerdì 20 novembre Robert Lepage al Teatro dei Celestini. L’attore e regista canadese che ha aperto con grande consenso di pubblico e critica il Festival RomaEuropa, era in cartellone con il suo “solo show” dal titolo 887; debuttava in città proprio il 13 novembre, giorno dei fatti di sangue al Bataclan e negli altri locali pubblici parigini. Ma la paura non ha prevalso; Lepage non ha cancellato lo spettacolo e il pubblico ha continuato ad andare a teatro, anzi, la richiesta di biglietti è stata così alta che Lepage venerdì 20 novembre ha concesso una recita straordinaria. Molti sono gli studenti delle Accademie e delle Scuole di recitazione che volevano vedere uno dei maestri indiscussi della scena contemporanea. Quando andiamo a intervistarlo in una pausa tra le due rappresentazioni, ci dice che dal palcoscenico percepiva evidentemente la tensione del pubblico che teneva il cellulare in mano e guardava continuamente le uscite di sicurezza. Ma ricorda anche che questo è il momento di reagire facendo resistenza cioè andando a teatro per vederlo e per farlo. Dice con enfasi che “non si riuscirà mai a distruggere la creatività, la gioia di vivere, la poesia”.
Ricordi dell’attentato si trovano nei biglietti e nei lumini accesi a Place Bellecour dove fa bella mostra di sé una gigantesca e luminosa ruota panoramica. Però la città ha deciso per motivi di sicurezza, di annullare Fête des Lumières che avrebbe dovuto iniziare l’8 dicembre, un evento che richiama migliaia di turisti e artisti da tutto il mondo con i palazzi pieni di giochi di proiezione e videomapping e lancia anche un appello via twitter a restare uniti e ad accendere in quello stesso giorno tutte le luci di case e le candele come tributo alle vittime dell’attacco terroristico.
Il 13 novembre sei andato in scena per la prima volta qua a Lyon con 887 ed è stato il giorno terribile degli avvenimenti di sangue di Parigi. Il tuo spettacolo parla tra le altre cose di una memoria del Quebec negli anni difficili della rivoluzione tranquilla. Oltre a una tua considerazione sui fatti come uomo e come artista volevo chiederti: credi che il teatro debba trovare dopo questi avvenimenti una maggior urgenza, una rinnovata necessità?
Prima di tutto ci si pone la domanda se si debba andare in scena oppure no. E io sono piuttosto dell’idea che si debba recitare, perché in circostanze quali quelle dei fatti di Parigi, recitare diventa un atto di resistenza. Vale a dire, non distruggerete mai del tutto la creatività, non distruggere mai del tutto la gioia di vivere, non distruggerete mai del tutto la poesia. Diventa pertanto, un atto di resistenza accettare di recitare e accettare di assistere allo spettacolo. E penso che proprio oggi più che mai, la gente abbia bisogno di radunarsi. E il teatro è un luogo d’incontro per eccellenza, più che il cinema o qualsiasi altro luogo di ritrovo, perché è un luogo d’incontro dove le persone non comunicano tra di loro ma condividono. C’è una comunione. E la comunione è molto diversa dalla comunicazione. E questo è molto importante soprattutto in un momento di crisi: le persone hanno bisogno di riunirsi, hanno bisogno di proiettare la situazione o la crisi che stanno attraversando su una storia o su dei personaggi e se è possibile, su qualcuno che sia capace di ricevere tutto questo e che sia in grado di trasformarlo.
Sei tornato a recitare in un solo show in cui parli della memoria. Qual è il motivo per ritornare a recitare in scena?
Mi mancava molto recitare sulla scena. E purtroppo sono unicamente dei progetti di “solo” (one man show, ndr) quelli che mi danno l’occasione di recitare. Nelle creazioni collettive che animo, un tempo potevo anche recitare, ma sono talmente impegnato in tanti progetti che non posso andare in tournée con lo spettacolo, dunque in tal caso penalizzerei la creazione, e proprio per non penalizzare le creazioni collettive mi sono tirato indietro e non ho partecipato come attore in queste produzioni. Era già da un bel po’ di tempo che non recitavo ma il caso ha fatto sì che quest’anno sarò in scena a lungo, non solo con il mio “solo” 887 ma anche con un altro spettacolo che si chiama The Quills dove interpreto il Marchese De Sade. Dunque è un anno in cui faccio ritorno a un luogo che trovo confortevole e che amo molto che è la creazione nel cuore stesso della scena. Trovo difficile fare come un pittore che sta all’esterno e che si limita a guardare, preferisco stare al centro. E questo mi mancava molto: non solo di recitare ma di stare al centro del processo creativo.
887.Lo spettacolo è impostato sull’organizzazione della memoria, una memoria, individuale, la tua memoria autobiografica e quella collettiva.Tu hai detto a Remi Charest a proposito della memoria e della pratica del ricordare «La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti o visivi per immortalare il passato, per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli, la qual cosa rende più difficile per la storia trasformarsi in mitologia…Le persone si dispiacciono della non affidabilità della memoria, ma dovrebbero esserne felici, e usarla come strumento creativo». In questo spettacolo la costruzione “creativa” della memoria quale funzione ha?
La forma dello spettacolo o lo stile dello spettacolo è quello che viene detto una ”auto-finzione”. La parola “auto-finzione” è un po’ ambigua perché vuol dire che raccontiamo la verità dunque è la vera memoria. Ma poiché nello stesso tempo è anche una finzione è la memoria trasformata. É la memoria più o meno giusta è la memoria poetica. Dunque c’è molta libertà nell’auto–finzione, questo mi permette di essere autentico e vero, di essere sincero ma al tempo stesso mi permette di conservare un certo pudore di non dire tutto ma di dire le cose in modo da toccare le persone, da risvegliare la loro intelligenza e la loro sensibilità. Bisogna che ci sia della verità ma come dire, un po’ riaggiustata. Per questo non è necessario che tutto sia vero, ma che tutto si basi su di un fatto che è realmente accaduto. Per questo cito sempre Picasso che diceva “L’Arte è una menzogna per esprimere meglio la verità”. E credo che questa frase sia appropriata per lo spettacolo, perché spesso ho “smussato gli angoli”, ma proprio per questo motivo lo spettacolo è ancora più vero.
Perno della storia è il poema Speak white che al suo interno contiene le rivendicazioni di una generazione, del Québec e del separatismo, della violenza, degli attentati degli anni Settanta, ed è una quindi una memoria politica…
Non mi sarei mai permesso di raccontare queste cose se le avessi vissute in età matura o adulta; se tutto fosse accaduto quando ero in età per votare non avrei mai raccontato nulla. Mi permetto di raccontare queste storie perché all’epoca ero un adolescente, avevo un’età in cui la politica mi interessava ma non avevo ancora un punto di vista critico, avevo un punto di vista sensibile, impressionista, poetico. Dunque tutte le immagini, gli estratti di giornali, i documentari, i veri documentari, tutto ciò prende un’altra sfumatura nello spettacolo, proprio se visto attraverso la memoria di un bambino, non attraverso la memoria precisa di un giornalista. Una memoria poetica, e dunque mi permetto di farlo.
Anna Monteverdi
L’intervista è parte di un videodocumentario in corso di realizzazione a firma di Anna Monteverdi, riprese di Giuseppe Baresi (seconda camera e suono Alessandro Bronzini); la traduzione è di Elisa Lombardi.
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