Ha collaborato con Sylvie Guillem, è stato direttore di Maggiodanza e coreografo per il Bolshoi, ora alla guida del Royal New Zealand Ballet. Abbiamo incontrato Francesco Ventriglia per un’intervista.
Con Francesco Ventriglia ho parlato di partenze, di un paese molto lontano, di situazioni preoccupanti e della danza, «un’arte estremamente fragile». Dall’incontro con lui riemergo con un’immagine: la danza come una “festa mobile”. Sarà forse questa una suggestione, mentre da una Parigi ferita e militarizzata arriva la notizia che Festa mobile di Ernest Hemingway è attualmente il libro più venduto. Penso alla resistenza cui siamo chiamati tutti oggi, mentre cerchiamo qualcosa da opporre alla brutalità di questi giorni. La danza ci insegna ad avere a che fare con la fragilità, la nostra, in modo da trasformarla in una forza dai lineamenti umani da proteggere in una vera e propria missione comune. E poiché la danza è veramente una festa mobile – direttamente da quel paese che si trova agli antipodi del nostro – domani sera è in scena all’Auditorium Conciliazione di Roma il Royal New Zealand Ballet. Con la direzione artistica di Daniele Cipriani e il sostegno della Fondazione Roma, la compagnia presenta A passing Cloud, un programma misto con coreografie di Andonis Foniadakis, Andrew Simmons, Neil Ieremia e Javier de Frutos.
A un anno dalla partenza per la Nuova Zelanda, che effetto ti fa rientrare in Italia?
Ne sono felice! Sono felice di tornare con una bella compagnia e a conclusione di un tour internazionale di sette settimane. Sono partito in seguito alle dimissioni dalla direzione di Maggiodanza, prima che la compagnia venisse chiusa. Ho assistito a quella che è stata una pagina molto triste per la storia della danza italiana. Sono arrivato in Nuova Zelanda vincendo un bando cui hanno partecipato settanta candidati internazionali. Sono orgoglioso perché oggi dirigo la compagnia facendo tesoro di tutto quello che ho imparato in Italia: alla Scala di Milano, nella mia scuola, nel mio teatro, a Firenze.
Com’è stato accolto un direttore italiano alla guida del Royal New Zealand Ballet?
Sono stato accolto molto bene. Il fatto che il Royal New Zealand Ballet sia la compagnia di danza nazionale è molto sentito e, in quanto tale, è molto sostenuta dal Ministero. Sono in relazione diretta col Ministro e con un direttivo di dieci persone: c’è una grande struttura che lavora dietro le quinte dell’unica compagnia di balletto del paese finanziata dal governo. In questo senso, il direttore italiano è visto come un ponte tra la Nuova Zelanda e l’Europa, tra il Nuovo e il Vecchio Continente. L’attraversamento di questo ponte, nelle due direzioni, è parte del mio progetto insieme a un vero interscambio tra il passato e il futuro della danza. La compagnia rientra nello standard delle “grandi case della danza” internazionali e l’ensemble sostiene tanto i titoli di balletto quanto le produzioni contemporanee: è una compagnia con un repertorio misto che va da Giselle a Liam Scarlett passando per William Forsythe.
Come mai avete deciso di indire un’audizione a Roma?
Abbiamo fatto audizioni a Edimburgo, a Canterbury, a Londra. Ma l’audizione pubblica ho deciso di tenerla a Roma, che è la tappa finale del tour. E anche per un po’ di sano campanilismo!
Sei stato definito come uno dei numerosi cervelli in fuga dell’arte. Tuttavia, storicamente la danza è un’arte fatta proprio da figure viaggianti, a partire dai maestri di ballo di corte in poi… quella del danzatore, come quella del coreografo, è una professione mobile quasi per definizione.
Sono d’accordo, non mi considero affatto un cervello in fuga. Chi insiste su questo aspetto, però, forse vuole lanciare un grido d’allarme rispetto alla crisi che la danza sta attraversando. La chiusura di Maggiodanza è solo la punta dell’iceberg! A Verona o a Palermo non è diverso: a Firenze è già accaduto, ma probabilmente altri corpi di ballo chiuderanno come a Bologna, Venezia, Trieste. Questa purtroppo è la storia contemporanea della danza italiana. Abbiamo istituzioni culturali importantissime presso le quali grandi artisti hanno lavorato alimentando proprio quello “scambio tra le corti” che un tempo è stato alla base dell’evoluzione della danza in Europa. È ovvio che meno “corti” ci sono meno scambio c’è e più artisti saranno costretti ad andare altrove. Questo è grave nonostante sia vero che questo mestiere non abbia passaporto. Io non ho lasciato l’Italia sbattendo la porta, ho lasciato l’Italia con un grande senso di orgoglio: se oggi sono il direttore del Royal New Zealand Ballet è perché ho un bagaglio culturale che mi è stato offerto dal mio paese, dalle nostre accademie, dai nostri teatri. È vero, però, che va condotta un’analisi oggettiva: la situazione è preoccupante. Se tornerò? Mi sento come un figlio che va a studiare all’estero e che dopo molti anni torna per dirigere l’azienda di famiglia avendo acquisito un bagaglio di esperienze, metodologie, culture. È necessario per riflettere sulla cecità politica che guida certe scelte: un paese come il nostro deve proteggere quello che ha e deve avere dei piani di sviluppo sapendo che un progetto chiuso è un progetto morto. Dunque, è vero, le figure viaggianti sono proprie dell’arte, ma una riflessione seria su quanto sta accadendo va fatta. Per esempio, perché non prendere a modello il sistema neozelandese? C’è una sola compagnia nazionale di balletto finanziata dal governo. In Italia si potrebbe studiare questo modello: sono due paesi di dimensioni analoghe con il vantaggio che l’Italia vanta un numero maggiore di pubblico potenziale. Si potrebbe avere una compagnia nazionale più grande, con 200/220 danzatori, che copra tutto il Paese. Si potrebbe ampliare un ensemble già esistente che raggiunga tutte le città italiane con attività di formazione, programmazioni tradizionali di balletto, nuove creazioni di giovani coreografi. In questo modo si potrebbe ridurre la dispersione economica e avere maggiore controllo. Piuttosto che chiudere e far morire così tante realtà sarebbe importante un’azione sinergica. Per esempio, una città come Firenze merita di avere un corpo di ballo, è assurdo che non lo abbia!
In questo momento ci sono delle opportunità per la danza italiana. Per esempio Eleonora Abbagnato sta facendo uno straordinario lavoro al Teatro dell’Opera di Roma, spero che tutti la sostengano. Tra poco al Teatro alla Scala di Milano ci sarà un importante cambio di direzione al corpo di ballo – che cosa accadrà dopo l’esperienza virtuosa della direzione di Vaziev? L’importante è che questi non restino solo degli exploit felici, ma che diventino operazioni durature. Che cosa succede a Palermo? A Napoli? A Verona? Queste città non avranno mai più un corpo di ballo? Se osserviamo il panorama internazionale, stanno accadendo delle cose importanti, il mondo della danza è fiorente e virtuoso ed è anche per questo che l’Italia deve stare attenta a non rimanere indietro.
Perchè la danza è così fragile?
La danza è delicata perché vive, si sviluppa, si nutre oppure regredisce e muore attraverso l’essere umano. Scultori, pittori, scrittori producono opere d’arte che in qualche modo vivranno per sempre. La danza invece nasce e vive attraverso gli universi umani che la replicano. Deve essere fortunata: attraverso il passare del tempo, quegli universi umani devono essere attenti, sensibili, musicali. È necessario che se ne prendano cura, che la studino e la portino sulla scena in un certo modo. È importante trovare una politica che supporti la danza adeguatamente. Gli intenti di tante persone devono concorrere affinché l’arte coreutica possa essere protetta, prodotta, ricreata o creata ex novo. Ci vogliono nuove idee e nuove culture altrimenti la danza è destinata a morire. Tutto questo fa sì che la danza sia un’arte delicata, che può morire con nulla. Guardiamo l’esempio di Firenze: prima di dimettermi c’erano in scena quarantatré danzatori, Sylvie Guillem che danzava le coreografie di Forsythe, nuovi coreografi e coreografi importanti, il teatro pieno, l’orchestra. E poi – a causa della cecità di una politica nel merito della quale non voglio entrare – tutti questi universi si sono spenti e tutte queste persone si trovano oggi fisicamente fuori da quel palazzo chiamato teatro in cui la gente va e si siede. Lì allora la danza è morta, perché non esistono più le persone che la mostrano e la proteggono. Si tratta di un’arte cui è molto semplice fare del male. Una volta in uno dei miei discorsi pubblici col Ministro ho detto una cosa che in Nuova Zelanda è diventata un po’ virale, cioè che gli artisti sono i custodi della bellezza e che per questo sono chiamati a venire al mondo. I danzatori, la cui vita professionale è breve, vivono per la bellezza. Il giorno degli attentati a Parigi eravamo a Canterbury ed eravamo impauriti e scossi, come tutti. Ho parlato con i danzatori, ho detto loro: «Questo è il vostro momento, perché siete i custodi della bellezza del mondo. Ci sono decine di persone in platea che hanno bisogno di bellezza in questo momento di orrore. Quando si aprirà il sipario avrete modo di onorare la ragione per cui siete qui». Eravamo in scena con Giselle e quella sera c’è stato uno scambio bellissimo col pubblico. Quindi, è vero che la danza è fragile, ma non bisogna dimenticarsi le ragioni per cui tutti concorrono affinché il suo equilibrio resti intatto. Custodire la bellezza è dunque la nostra vera missione, quasi un obbligo.
Gaia Clotilde Chernetich
Ulteriori informazioni sulla chiusura di Maggiodanza:
Su Il Manifesto
Su Danzon
Dichiarazione di Francesco Ventriglia [VIDEO]
Giovedì 3 dicembre – Auditorium Conciliazione, Roma
Rassegna Tersicore
ROYAL NEW ZEALAND BALLET
A PASSING CLOUD
Prima Nazionale
Coreografie: ANDREW SIMMONS, NEIL IEREMIA, JAVIER DE FRUTOS, ANDONIS FONIADAKIS