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Giampiero Rappa. All’Albania, dall’Italia

Giampiero Rappa e Aleksandros Memetaj presentano in prima assoluta Albania casa mia al Teatro Argot Studio di Roma. Recensione.

 

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Nell’andirivieni da una sala all’altra, attraversando Roma in tutta la sua estensione, arrivando molto spesso trafelati perché l’autobus non passa mai e il parcheggio tanto ricercato è stato alla fine inventato; succede a volte di sedersi e andar via da teatro con la sensazione di aver goduto di un privilegio: trovarsi di fronte a una preziosa e accurata novità, giunta alla fine di una giornata caotica. Peccato soltanto che nello spazio di Trastevere ci fosse poco pubblico ad applaudire Albania casa mia, ultima produzione del Teatro Argot Studio scritta e interpretata da Aleksandros Memetaj per la regia di Giampiero Rappa.

Ci aspetta solo in scena il giovane autore e attore nato nel 1991 a Valona, trasferitosi a soli sei mesi di vita in Italia precisamente a Fiesso d’Artico in provincia di Venezia. Nel nero della sala a piedi nudi con indosso felpa e tuta, l’attore è accovacciato sopra una lavagna sulla quale col gesso ha disegnato dei confini, limiti che per i sessanta minuti non saranno varcati dall’azione scenica, circoscritta in quella porzione di spazio, vitale. La narrazione biografica parte dall’infanzia e adolescenza del ragazzo, si innesta poi nella storia del padre tramite un salto fino ai primi anni Ottanta in cui incontriamo Alexander Toto, ingegnere fisico, che lascia l’Albania per “cercare fortuna” in Italia iniziando a lavorare in una pizzeria nella provincia di Venezia, fino a quando la polizia, scoperti i documenti falsi, lo rispedisce a Valona. Fermo nella convinzione di lasciare l’Albania, in una notte dell’inverno 1991 Alexander, sua moglie e il piccolo Aleksandros scappano a bordo di un peschereccio di gamberetti dalla «grande madre», e dalla crisi socio-economica scaturita dal fallimento della politica comunista.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Memetaj e Giampiero Rappa si sono conosciuti alla scuola di recitazione Fondamenta di Roma e, dopo essersi incontrati alla fine dei corsi, il regista ha invitato l’attore a scrivere un testo che parlasse della sua storia, entrambi intenzionati «a non voler scrivere uno spettacolo di denuncia sociale […] fidandoci del testo, cercando di allontanare ogni forma estetica interpretativa fine a sé stessa o inutili patetismi, senza musica o luci a effetto». Il monologo ha inizio quindi dalle basi: come ci chiamiamo e come ci presentiamo, ciò che impariamo come prima cosa a scrivere e i cui segni grafici inondano fogli, disegni, biglietti, muri, banchi. Durante una precisa fase dell’infanzia tutti devono sapere chi siamo e soprattutto devono sapere che anche noi ne siamo consapevoli, perciò lo sappiamo scrivere. Per Aleksandros invece, «l’identità è un trauma»: “Sandro” per il papà, “Alessandro Memeti” a scuola. Quella “k” messa lì in mezzo, a bloccare la fluidità della “s”, è sempre stata difficile da mandare giù. La lingua è una forma di vita, “madre” perché appartiene alla storia della nostra famiglia e comunica da dove veniamo, chi siamo. L’albanese diverrà allora una lingua di resistenza per Aleksandros: soffocata in classe dall’insegnamento dell’italiano, sarà utilizzata per deridere le maestre, prendersi gioco dei bulletti della classe ma soprattutto la sentiremo riaffiorare nel monologo quando bisognerà parlare di paura, rivalsa, gioia e affetto.

Rappa si contraddistingue ancora una volta (lo avevamo visto lo scorso anno in A Slow Air) per quel verismo teatrale in cui attore e testo sono presentati in tutta la loro semplice densità, sulla quale si costruisce una drammaturgia nuda incentrata solo sul corpo e la parola. Il testo di esordio di Aleksandros Memetaj è esemplare di una letteratura transculturale della migrazione, costruito attraverso una fine scelta terminologica, scorrevole e avvincente per la chiarezza delle espressioni e la poesia delle descrizioni utilizzate. La scrittura d’autore è plasmata e incarnata poi dalla fisicità d’attore: energica negli slanci e morbida nelle emozioni, alternando divertimento e riflessione con doviziosa pulizia di toni.

Con quel teatro dello “stare in mezzo” − metà albanese, metà italiano − Albania casa mia ci offre l’opportunità di ascoltare un racconto la cui intimità non è solamente confinata alla sfera individuale e famigliare, ma si allarga fino a comprendere una riflessione di tipo storico e sociale.

Lucia Medri

Visto al Teatro Argot Studio, Roma, dicembre 2015.
In scena fino al 13 dicembre.

ALBANIA CASA MIA
Argot Produzioni
di e con Aleksandros Memetaj
regia Giampiero Rappa
aiuto regia Alberto Basaluzzo

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Lucia Medri
Lucia Medri
Giornalista pubblicista iscritta all'ODG della Regione Lazio, laureata al DAMS presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una tesi magistrale in Antropologia Sociale. Dopo la formazione editoriale in contesti quali agenzie letterarie e case editrici (Einaudi) si specializza in web editing e social media management svolgendo come freelance attività di redazione, ghostwriting e consulenza presso agenzie di comunicazione, testate giornalistiche, e per realtà promotrici in ambito culturale (Fondazione Cinema per Roma). Nel 2018, vince il Premio Nico Garrone come "critica sensibile al teatro che muta".

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