I detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia – Reparto G8 portano in scena oggi Fitzcarraldo al Teatro Argentina. Abbiamo incontrato Fabio Cavalli e Laura Andreini Salerno per parlare del Festival dell’Arte Reclusa.
Fitzcarraldo è esistito realmente. Avventuriero irlandese, Brian Sweeney Fitzgerald seguì il folle progetto di costruire un teatro dell’Opera nel cuore della foresta amazzonica. Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito, con i detenuti attori del Reparto G8 di Rebibbia N.C., hanno deciso di ribaltare la prospettiva della storia per farla narrare dalla ciurma di sbandati assoldata dall’avventuriero, ciurma che tra mille peripezie riuscirà ad arrivare nel cuore della foresta cantando «non ho mai amato tanto la vita» e costruendo essa stessa il sogno del teatro. «La metafora mi pare che sia chiara. La bellezza, l’arte, la possibilità e l’orgoglio finale di dire: questo l’abbiamo fatto noi. Quello che gli attori costruiranno sarà il Teatro Argentina stesso. Scenderanno dal palcoscenico, sfonderanno la quarta parete e si inoltreranno in platea, nella giungla amazzonica, nella vita». Mi accoglie con quest’immagine Laura Andreini Salerno, seduta al tavolo con Fabio Cavalli mentre in silenzio ascolto e lascio alle loro parole la suggestione di un viaggio fino al cuore del teatro in carcere. Quel viaggio che anche quest’anno prende le mosse dal Festival dell’Arte Reclusa, organizzato dal Centro Studi Enrico Maria Salerno con protagonisti i detenuti attori.
Perché, come Fitzcarraldo per l’Amazzonia, avete intrapreso la strada del carcere con il sogno di “costruire” un teatro?
F. Cavalli: Nel 2002, il teatro di Rebibbia era inutilizzato o quasi; mi chiesero di dare una mano a un gruppo di detenuti che cercava di mettere in scena Napoli milionaria! guardando le videocassette di De Filippo. Il primo giorno che entrai nel reparto il gruppo di detenuti mi fece vedere come avevano immaginato di portare sul palcoscenico la scena della borsa nera di Gennaro Iovine e io in quei dieci minuti raffazzonati vidi più teatro di quanto ne avessi mai visto in tutta la mia vita, nonostante avessi già debuttato con i più grandi, ma lì c’era qualcosa in più. Non c’era nessuna differenza tra l’attore e il personaggio. C’è in loro una totale immedesimazione, totale identità qualunque cosa facciano.
Da quel giorno com’è cambiato il teatro e come il teatro ha cambiato il carcere?
L. Andreini Salerno: Radicalmente. La cartina tornasole per capire quanto il teatro sia cambiato e di come abbia cambiato Rebibbia lo vediamo, banalmente, dalla partecipazione della polizia penitenziaria a queste attività. All’inizio gli agenti seguivano perché erano costretti, tutto il resto era un ingombro. Oggi per lo spettacolo all’Argentina abbiamo una lista di loro familiari per i quali mi chiedono di trovare un posto. Sono i primi a essere orgogliosi di questa attività, vengono in borghese pur di stare lì anche se non sono in servizio. Inoltre il teatro è diventato attività trattamentale, fa ora parte del processo di rieducazione.
F. Cavalli: Oggi quello di Rebibbia è praticamente uno dei teatri di Roma con più affluenza di pubblico nonostante gli spettacoli si facciano di pomeriggio. Con i detenuti i risultati ci sono da un doppio punto di vista: della partecipazione, perché si comincia con un gruppo di venti e si finisce con cento attori, e della statistica: la media di recidiva una volta usciti dal carcere a livello nazionale e europeo è sul 70%, sulla media del 20% per chi lavora, e sotto il 10% per chi fa teatro. Fare arte disincentiva l’essere recidivi.
Qual è la condizione dell’uomo che la reclusione ostacola, o acuisce, e sulla quale il teatro interviene?
L. Andreini Salerno: Sono tante le gabbie, una è sicuramente la povertà del linguaggio. I detenuti sono spesso persone che hanno un bagaglio culturale misero di parole e vivono con l’assenza – o la rimozione – di un’identità forte; ciò crea in loro una prigione. Il teatro è una struttura superiore del linguaggio, aiuta a raccontarsi, dà una seconda chance: nel gruppo c’è voglia di raccontare tra noi le avventure che ci hanno visto protagonisti assieme creando un’identità, coagulandoci attorno a una mitologia collettiva, a un immaginario condiviso.
F. Cavalli: Il carcere ti toglie l’immaginazione. La domanda che mi sono posto, è: ma perché il teatro funziona così tanto? La condizione del detenuto, così come la condizione dell’uomo, ci fa reiterare costantemente dei percorsi fisici esperienziali e mentali già fatti. Il teatro pare intervenire in un sistema di ostacolo rispetto alla ripetizione del consueto, costringendo per esempio alla memorizzazione e alla ripetizione del copione, che da una parte è faticosa, ma questa fatica, quest’ostacolo che si interpone tra te e la replicazione delle modalità del tuo esprimere e del tuo immaginare, è mitigato dal piacere della rappresentazione, quindi dell’applauso, dell’esibizione. Analogamente alla funzione del nuovo innamoramento, dopo la delusione: un lutto, un abbandono, crea uno stato compulsivo di reiterazione della memoria che si interrompe nel momento in cui subentra l’incontro col nuovo amore che con la sua gratificazione spezza questa catena. Nel teatro l’incontro è con il testo e poi con la messa in scena. Il processo si consolida con il pubblico nel momento in cui diventa esibizione, riconoscimento: il riconoscimento di sé nello specchio, il riconoscimento degli altri detenuti in te come altro da te, il riconoscimento degli agenti che ti vedono in una veste nuova e il riconoscimento dei familiari che banalmente ti vedono uscire dalla cronaca nera e entrare nella cronaca dello spettacolo; una trasformazione profonda della percezione del sé che spezza quella reiterazione ossessivo compulsiva. La domanda – perché il teatro fa così bene? – era così forte in me, e così scarsa la letteratura scientifica, che ora ricerco la risposta nel laboratorio Teatro in Carcere – Etica, Estetica, Prassi che tengo presso l’Università di Roma Tre.
Tutto questo, dietro il Festival dell’Arte Reclusa.
L. Andreini Salerno: Aprire questo teatro alla città lavorando con i giovani e con le scuole, con progetti di interscambio con detenuti. Vogliamo che le proposte siano diverse e diversificate con la dignità dei teatri pubblici, che ci sia quindi una sorta di programmazione; un teatro deve ospitare, produrre, valorizzare i progetti interni e portare fuori quelli che possono uscire. Fare una rassegna vuol dire, anche per l’amministrazione penitenziaria, far capire questo.
In un luogo intriso di prigionia, qual è la libertà che voi, per la vostra vita, invocate?
L. Andreini Salerno: La libertà dalla possibile mitizzazione di quello che facciamo. La libertà di potersi ritrovare tutti i giorni, di rimettersi in discussione sempre. Anche lavorare in carcere può assumere un valore mitico nella propria vita e diventare poi una prigione esso stesso.
F. Cavalli: «Ciò che voi se lo vivete vi fa piangere, se lo vedete vi fa emozionare»; cerco quella libertà, quel coraggio che non ho mai avuto, quella debolezza che a contatto con l’umanità ferina mi restituisce un’altra parte di me e mi dà forza. La libertà dell’essere contagiato dalla potenza della vita.
Luca Lòtano
Teatro Argentina, Roma, 7 dicembre 2015
FITZCARRALDO
drammaturgia e regia di Laura Andreini Salerno e Valentina Esposito
con i detenuti attori del Teatro Libero di Rebibbia – Reparto G8
con Fabio Albanese, Amhetovic Teno, Arapaj Ziedet, Giuseppe Borzacchiello
Carlo Cigliano, Marco Costantini, Deromemaj Hetem, Giuliano De Montis, Alessio De Santis
Andrea Diotallevi, Ezio Felici, Salvatore Fontana, Alessandro Forcinelli, Filippo Giuffrida, Toma Jovanovic, Koloti Erion, Pietro Lo Giudice, Tommaso Marsella, Romolo Napolitano, Oyanmelen Ehis, Porcacchia Giancarlo, Rakipi Ermal, Franco Tomasi, Doriano Torriero
Teatro Libero di Rebibbia
Festival dell’Arte Reclusa 2015
Direzione Artistica Laura Andreini Salerno e Fabio Cavalli