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Dalla provincia dell’Impero. Intervista a Muta Imago

Muta Imago. Li abbiamo incontrati nei giorni della loro installazione Fare un fuoco, tratto da Jack London, al Teatro Brancaccino. Abbiamo parlato di com’è diventata la Roma teatrale, di processi artistici, di progetti e ipotesi di futuro

muta imago
Foto Muta Imago

Il Pigneto è un quartiere particolare, sta a Roma in una forma inversamente proporzionale. Là dove la città pone sigilli di chiusura al senso comunitario, il quartiere disegna mappe sociali di condivisione, aprendo locali in cui torna possibile uno scambio di confronto. Una volta lo facevamo col teatro intorno, si dice con i Muta Imago – Claudia Sorace e Riccardo Fazi – in uno dei più frequentati bistrot del quartiere: dov’è finita la città in cui siamo cresciuti?

Simone: Muta Imago. Ossia una delle compagnie formate a Roma a contatto con gli spazi sociali e che ora ha raggiunto una maturità artistica capace di dialogare con grandi istituzioni in Italia e all’estero. Tuttavia Roma è cambiata, mai come ora la vitalità artistica sembra compromessa, sia per il teatro che si fa, sia per il teatro che si mostra: gli spazi chiudono, o vengono chiusi, ci si dimentica siano mai esistiti talvolta, non sono sostituiti da altri capaci di far fronte alla richiesta di una città così complessa. Che la capitale dell’Impero si sia ridotta a provincia?

Riccardo: Una provincia dell’Impero… è una sensazione che sta attraversando l’Italia intera; ovunque andiamo ci chiedono cosa stia succedendo a Roma, un po’ percepita come un Deserto dei Tartari dove la situazione produttiva, soprattutto per chi inizia, è molto complicata. Però mi chiedo: quando pensiamo a Roma dieci anni fa, non staremo anche noi costruendo un’idea basata sulla biografia personale, generazionale, pensando il tempo di prima come età dell’oro? La «bellezza degli inizi», come la definisce Conrad, è reale o una proiezione postuma?

S: C’è una differenza e cioè che le compagnie vicine per età, erano allora più giovani e sono rimaste oggi negli stessi spazi – di creazione e condivisione diretta, prima che di mostra pubblica – che avevano a disposizione allora. Anzi, peggio ancora, quegli spazi sociali che hanno sopperito alla mancanza di un’intelaiatura produttiva e che si sono fatti officina per almeno dieci anni, ora non esistono più o non hanno la forza, tra imprese legali e un cambio di generazione mai operato, di sostenere l’errore di una lenta crescita artistica. La domanda è: nella generazione precedente è stato costruito un piccolo feudo, che sia un luogo fisico o una forma di “giro”. E noi siamo diventati grandi?

Claudia: I feudi nel teatro italiano penso siano altri…Sicuramente il sistema ufficiale sta facendo fatica ad introdurre dentro di sé una serie di modalità rappresentative e di costruzione dello spettacolo che esce dagli schemi del teatro di prosa. Ad esempio con  Pictures from Gihan, l’ultimo spettacolo prima di Hyperion, l’opera lirica che ha debuttato il mese scorso a RomaEuropa Festival, ci siamo permessi di creare uno spettacolo che avesse una forma aperta, un racconto che in quanto autobiografico si aggiornava all’interno del tempo delle repliche. Chiaramente questa non è una modalità che ha favorito la circuitazione del lavoro. Per noi in ogni caso rimane centrale l’idea di affrontare la creazione artistica come uno spazio che si affaccia verso l’ignoto e di cui a volte è bello non stabilire gli esiti fin dall’inizio.

S: Però in quel teatro “ufficiale”, nonostante la vivacità della performance che già proponeva da tempo una modalità diversa, gli artisti della “nostra” generazione hanno portato in maniera forse più netta il lavoro per tappe, in progress, certificando come il lavoro effettivo sia il processo e non il risultato. Abbiamo forse dato idea che questa forma liquida bastasse a sapere dell’opera anche a uno stadio primitivo?

R: È vero in parte. La nostra natura è quella di stare un anno o più su un progetto e quando sei all’inizio di un percorso e ti risulta difficile costruire una forma produttiva per seguire questa natura, allora ti trovi se vogliamo costretto ad adeguarti al contesto che ti viene offerto. Quindi è vero che il lavoro per tappe ha contraddistinto quel periodo, che ora sembra già lontanissimo, ma vero è che si trattava di una risposta di provocazione a un sistema che ci costringeva a costruire con tempistiche strette chiedendo sempre continue novità. Da qui la proliferazione degli studi che contraddistingueva le programmazioni dei festival in quel periodo e che oggi per fortuna sembra finita. Oggi, come allora, si deve puntare molto sull’estero: è anche e soprattutto con istituzioni estere che va fatta dialogare ad esempio la possibilità offerta da un finanziamento ministeriale, che ti mette di fronte a richieste che ti spingono ad alzare l’asticella del tuo lavoro, proprio per la sua natura parziale e non esaustiva.

S: E noi che complicità abbiamo con questo sistema? Ci è stata data questa opportunità di lavorare, seguire la sua liquidità è stato un modo di rendere liquida anche la nostra presenza nel panorama artistico?

C: Non sono convinta, c’è qualcosa di inevitabile che poi sul piano artistico trasforma ciò che fai. Ci sono delle contingenze biografiche e soprattutto un’onestà intellettuale senza precedenti: se il sistema da un lato non ha accettato, o assimilato, certe pratiche, certe assunzioni di rischio, del contemporaneo, dall’altro questa generazione almeno non ha prodotto artisti ieratizzati in una presenza statica, un’occupazione di posti di potere come invece è avvenuto in precedenza.

S: Il rischio è dunque stato espulso dal sistema?

C: Certo, ma in Italia. Sperimentando l’estero, più assiduamente Bruxelles, ci siamo resi conto che anche il pubblico è incline e accetta questo rischio, anche a costo di essere parte del fallimento artistico. In Italia non è avvenuto forse perché li abbiamo poco coinvolti noi, non abbiamo accolto nei processi al punto di far partecipare lo spettatore di quello stesso rischio, mostrando da dove provenga l’intenzione, dell’arte.

R: Anche il rischio è però relativo a quelle pratiche: io credo che nel 2011, ossia nel periodo in cui alcune compagnie che avevano un percorso simile per età uscivano dalla fase dell’ego ed entravano in quella della scoperta del mondo, se in quel momento le istituzioni stabili avessero offerto produzioni più “normali”, stabili, non staremmo qui a parlare in difesa di un processo artistico. Tra l’altro oggi mi pare che le cose più interessanti in teatro vengano da chi, nel nuovo proliferare della performance soprattutto a contatto con le arti visive, abbia saputo sciogliere quel processo proprio nell’esito.

S: Credi questo sia frutto di una difficoltà tutta umana nel raggiungere una compiutezza del pensiero o proprio l’arte oggi è in difficoltà nel trovare concrete chiavi di racconto?

R: L’arte sta riscoprendo la sua forza utopica non nell’immaginazione di un altrove ma nella capacità di strutturare nuove modalità di vivere il presente. Per esempio anche noi, nel momento in cui abbiamo cominciato a inserire alcune azioni che ci mettevano in relazione con il “fuori”, abbiamo cominciato anche a vivere un momento di crisi nel rapporto con la scatola nera. E il teatro, di fronte a questa necessità collettiva, si sta chiedendo come realizzare questo racconto del presente senza però perdere la qualità immaginifica che gli è propria.

S: Veniamo all’oggi. Siete in scena in questi giorni con l’installazione scenica Fare un fuoco al Teatro Brancaccino, proprio a Roma. Di cosa si tratta?

R: Si tratta del primo esperimento di una trilogia di racconti americani. Il tema che li unisce è quello del conflitto come elemento caratterizzante la nostra esperienza di esseri umani nel mondo. Jack London, Fare un fuoco è il conflitto tra l’uomo e la natura. Poi arriverà Melville con Bartleby, il conflitto tra l’uomo e la società. Il terzo, che sarà probabilmente di Hawthorne, avrà a che fare con il conflitto dell’uomo con sé stesso. Si tratta di investigare il modo in cui questi racconti possono essere restituiti in forma audio/video, ricreando una forma di ascolto legata all’oralità e all’immaginazione.

Simone Nebbia

Teatro Brancaccino, Roma – 26 dicembre ore 20; 27 dicembre ore 17 30

FARE UN FUOCO
racconto per suono e immagini
liberamente tratto dal racconto di Jack London
ideazione Muta Imago
regia Claudia Sorace
disegno sonoro e voce narrante Riccardo Fazi
musiche originali V. L. Wildpanner
video Maria Elena Fusacchia
produzione Muta Imago 2015

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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