Il Minotauro di Zaches Teatro è andato in scena al Teatro India di Roma. Recensione
Avventura, suspense, insegnamento di vita; rappresentazione di sentimenti, principi morali e posizioni etiche; divisione tra religione, spiritualità e superstizione; riflessioni sull’umano e sulla onnipresente conseguenza delle sue azioni, dall’amore alla morte, tutto in una chiave metaforica stupendamente ibrida e sempre simmetrica, diafana, doppia. Squisitamente sperimentale. In ogni mito classico c’è tutto questo, riassunto in versi sciolti che incorniciano azioni e reazioni unendo in catene – che ora tengono, ora strangolano, ora rafforzano – epifanie di presa di coscienza e di equazioni emotive sul senso dell’essere un essere umano. Nel mondo di ieri o di oggi.
La pur giovane carriera del gruppo fiorentino Zaches Teatro ha avuto modo di dimostrare l’esistenza di una forma di ricerca ibrida, che elabora le tecniche del teatro di figura, di maschera e d’oggetti, si muove su delicati passi di danza e incornicia il tutto in una meticolosa cura della visione. Inaugurata nel 2006 con One Reel (un Aspettando Godot tutto giocato con maschere e oggetti), la compagnia conduce diversi laboratori sul territorio e ha attualmente all’attivo una suggestiva Trilogia della Visione (Il fascino dell’idiozia, Mal Bianco, Lost in Time) e un Pinocchio cupo e inquietante, che ci aveva stupiti un paio d’anni fa. Il primo approccio al racconto mitologico, seppure appartenente a un’epoca diversa, era stato nel 2008 con Faustus! Faustus!, rievocato ancora una volta da tagli di luce, sbuffi di fumo e lente movenze, un enigma della visione tutto da risolvere.
Nella stessa direzione sembra andare, durante i primi minuti, Il Minotauro presentato al Teatro India di Roma dopo il debutto nazionale al Minimal Teatro di Castelfiorentino. L’idea visiva che fa da chiave a tutto è quella delle statue semoventi, che si animano d’improvviso al soffio di un incantesimo, agendo e parlando davanti a noi, come fossimo persi nei corridoi di un museo d’arte classica nell’orario di chiusura. Una fioca luce illumina un frammento di bassorilievo con la figura di un toro, spezzato in altri tre grossi frammenti per dare inizio alla storia. Al suono sinistro di pietra che si sgretola, la sagoma di un guerriero di marmo prende a muoversi e scende dal piedistallo, cogliendoci davvero di sorpresa. Il sapiente gioco di luci sui corpi ricoperti di color creta inganna gli occhi e ci rimanda all’immaginario delle illustrazioni dei libri di mitologia.
La storia narrata non si limita alla lotta tra il feroce mostro figlio di Pasifae mezzo uomo e mezzo toro e il valoroso Teseo, di quest’ultimo viene riportata una selezione delle imprese principali nel suo viaggio verso Atene alla ricerca di un riscatto agli occhi del padre Egeo. Nel corpo flessuoso di Gianluca Gabriele convergono fascino, forza e superbia, caratteristica di quegli eroi greci che finiscono in disgrazia.
Ma in questo caso la disgrazia non arriva. In una struttura persino eccessivamente lineare – forse perché, indica il foglio di sala, lo spettacolo è offerto a un pubblico dagli 11 anni in su – si susseguono quadro per quadro le imprese di questo novello Eracle, tra duelli all’arma bianca governati dalla pura coreografia, dialoghi con voci preregistrate o con ombre che appaiono e scompaiono dietro ai velatini di fondo, monologhi lirici risonanti dell’eco di un microfono panoramico ben visibile in proscenio, improvvisi ed enfatici passi a due quasi rubati al balletto contemporaneo.
Alla linearità del plot si contrappone una sovrabbondanza di segni; così in scena non riesce a costruirsi una reale tensione, la potenza dei simboli evocati resta intrappolata nella sua stessa rappresentazione, rischiando di confinare le statue redivive in una nuova immobilità. Specialmente se ci si rivolge anche al pubblico dei più giovani, ciò che stavolta manca a questa – come sempre – notevole architettura visiva è il rigore nella creazione coreografica, spesso sofferente di frequenti dislivelli di resa, e una struttura drammaturgica in grado di tradurre le azioni raccontate dalle liriche in un ritmo scenico degno della sua veste estetica, che riserva più di un momento di reale meraviglia, tra drappi rossi che suggellano le ferite e l’apparizione del Minotauro come una divinità indù, che si lascia uccidere dolcemente. Se – come accadeva alla perfezione in Pinocchio – occhi e orecchie riescono a farsi unica dimensione, la mitologia “magistra vitae” può sfruttare la vitalità del corpo per esplodere i propri sensi nella più vivida animazione del teatro: le ossa e i muscoli che vivono la storia ne sono, al contempo, il principio creatore.
Sergio Lo Gatto
visto al Teatro India, Roma, dicembre 2015.
IL MINOTAURO
coreografia e regia Luana Gramegna
con Gianluca Gabriele, Anna Solinas, Eugenia Coscarella
una produzione Zaches Teatro
con il sostegno della Regione Toscana e il MiBACT
in collaborazione con Fondazione Sipario Toscana onlus – La Città del Teatro, Giallo Mare Minimal Teatro, IMacelli di Certaldo, Straligut Teatro, Kilowatt festival