Tomi Janezic in un’intervista di Anna Maria Monteverdi. Il regista è candidato al premio Golden Mask
Il Premio Golden Mask è il prestigioso riconoscimento che viene conferito dal Theatre Union of Russian Federation alle migliori produzioni internazionali presentate nei distretti federali della Russia; vengono premiate opere di teatro di prosa, balletto, lirica, danza moderna, musical e teatro di figura. Il Golden Mask, fondato nel 1993, è anche un Festival di teatro che ha luogo in primavera a Mosca e mette in scena le migliori produzioni dell’anno precedente.
Tomi Janezic, una delle voci più autorevoli della nuova generazione di artisti dei Balcani è nelle nomination per la miglior regia e la miglior produzione su larga scala; il regista sloveno è noto al pubblico italiano per il suo sorprendente Gabbiano (produzione Teatro Nazionale di Belgrado) presentato con enorme successo di critica a Fabbrica Europa un anno fa. L’allestimento per cui è stato selezionato dal board del Golden Mask è MAN, tratto dal libro Dire sì alla vita, nonostante tutto scritto da Vicktor Frankl, psicologo austriaco fra i fondatori dell’analisi esistenziale e della logoterapia, che ha vissuto il dramma dei campi di concentramento e ha scritto a seguito di questa tragica esperienza, diversi libri tra cui Alla ricerca del significato della vita, Uno psicologo nel lager. Prodotto dal Bolshoi Drama Theatre di San Pietroburgo (BDT) lo spettacolo si avvaleva di un cast di attori russi; come si legge nelle note di regia il lavoro teatrale è una riflessione sui temi sollevati dal libro di Frankl: la dignità e la libertà interiore, la capacità di rimanere umani in condizioni disumane.
Altri registi in nomination al Golden Mask: Bob Wilson per Pushkin’s Fairy Tales e Romeo Castellucci per Human Use Of Humen Beings.
Tomi Janezic firmerà nella primavera 2016 la regia di una nuova produzione per Pontedera Teatro: è ancora Čechov l’autore scelto dal regista sloveno che si avvarrà di attori italiani. Regista ma anche docente all’Academy for Theatre, Radio, Film, and Television (AGRFT) di Lubjana, Janezic è interessato al metodo dello psicodramma applicato a diversi campi artistici (regia teatrale e cinematografica, drammaturgia) e al processo creativo della recitazione: «Ho cercato diversi modi per usare le tecniche dello psicodramma come analisi attiva/creativa per esplorare la vita di un personaggio, i suoi rapporti, situazioni, eventi, circostanze date ecc., e di usare gli strumenti dello psicodramma per risolvere questioni personali che possono costituire una grande barriera (molto potente) rispetto alla creatività spontanea e necessaria se si vuole usare efficacemente qualunque approccio alla recitazione».
Lo spettacolo MAN nasce da una commissione del Teatro di San Pietroburgo. Perché la scelta di un autore come Viktor Frankl?
Tomi Janezic: Il libro di Frankl era un po’ una sfida teatrale. Si tratta del rapporto di uno psicologo in un campo di concentramento. Non abbiamo fatto una drammatizzazione o qualcosa di simile, ma abbiamo cercato come relazionarci verso questo libro e il suo contenuto, e abbiamo cercato un linguaggio teatrale nel quale usare le sue parole. Ho letto il libro di Frankl quando ero giovane ed è uno dei libri che non ti dimentichi. A Pietroburgo abbiamo cercato del materiale connesso al 70° anniversario della fine della Seconda Guerra mondiale. Pietroburgo è una città che ha sofferto moltissimo. E il giorno della vittoria ha un potente significato in Russia e specialmente a Pietroburgo. Quindi una delle ragioni di aver pensato a Frankl è connessa anche a questo contesto.
Dall’altra parte il libro – tradotto in 24 lingue e venduto in milioni e milioni di copie – è molto più conosciuto negli Stati Uniti (dove è considerato tra i 10 libri più influenti) e in Europa. Quindi era un po’ anche l’occasione per proporre questo libro alla lettura. Infatti molti parlano di questo libro come di un libro che regali volentieri o proponi a qualcuno di leggerlo dopo averlo letto.
Perché?
Perché tratta delle domande e questioni esistenziali su cui probabilmente ognuno si interroga: sull’ amore, sulla sofferenza, sul senso della vita, sulla violenza/brutalità/sadismo, sulla libertà, sul conformismo, sulla forza dell’immaginazione, sulla morte, sull’umanità, sulle scelte, sul sopravvivere… su cos’è l’uomo e su come si comporta in situazioni estreme, e dov’è la sua libertà, se esiste.
Ci sono diversi pensieri contenuti nel libro di Frankl su cui soffermarsi: è un libro speciale perché scritto da qualcuno che è sopravvissuto a circostanze difficilissime – circostanze alle quali non ci potremmo mai preparare né sapere come ci comporteremmo se succedesse a noi – e che per questo motivo porta con sé una credibilità diversa, straordinaria. Ne parla qualcuno che ne ha avuto un’esperienza diretta. E cerca di parlarne il più oggettivamente possibile. Non parla/scrive per sfogarsi, per confessare, per esternare dei sentimenti o per farne un mito, ma parla/scrive per riflettere, per analizzare, per oggettivare l’esperienza, per capire, per trovare delle risposte o per porre delle domande. La forza di questo libro sta proprio nel compito eccezionale che Frankl si dà nel rapportarsi verso se stesso e verso tutto quello che ha vissuto e nella motivazione/ragione per il quale è stato scritto.
Se dovessi scegliere tra i pensieri del libro, uno dei più forti per me (e forse e uno dei temi principali dello spettacolo) è che ci sono solo due razze di uomini in questo mondo, solo queste due: la razza di uomini decenti e la razza degli indecenti. E tutte e due le puoi trovare dovunque, penetrano in tutti i gruppi della società. Nessun gruppo consiste solamente di “decenti” o “indecenti”. In questo senso uno può trovare dei “decenti” nei gruppi dove non si aspetterebbe e anche l’opposto. L’altro pensiero che mi viene in mente è quando l’autore si chiede “Cos’è l’uomo”:è l’essere che decide chi è. È l’essere che ha inventato le camere gas ed è anche l’essere che è entrato in quelle camere con la preghiera sulle labbra.
Come hai impostato il lavoro teatrale?
Una delle cose che erano abbastanza chiare sin dall’inizio era che non volevamo usare l’iconografia che conoscevamo, dalle fotografie e film dei campi di concentramento: quindi, nessuna divisa, nessun segno che appartenesse a quell’ epoca, nessuna fotografia o filmati, nessuna scenografia di campi di concentramento, nessuna rappresentazione o recitazione dei carcerati o delle guardie o dei soldati o ufficiali. Mi sembrava che non fosse “decente” “recitare” questa storia/storie vera/vere, mi sembrava anche che non fosse una buona strategia creativa pretendere di rappresentare persone di cui non sappiamo niente, ma che forse era più importante confrontarsi con queste storie, vedere cosa significano per noi, cosa provocano davvero in noi. Non dovevamo perdere di vista il fatto che si trattava di materiale documentario e non avevo pretese di trasformarlo in qualcos’altro. Siamo partiti dalla lettura e dall’ascolto e dopo è arrivato il momento di mettersi in certi ruoli, non per rappresentare ma per immaginare meglio, per cercare di capire meglio.
Penso che lo spettacolo non voglia vittimizzare le vittime: cerca di non guardare gli uomini che si sono trovati (o si trovano) in circostanze difficili con un punto di vista superiore, dicendo: “Poveri loro”, ma cerca di essere consapevole della dignità di ogni uomo, anche e specialmente in circostanze difficili. Lo spettacolo – come il libro – cerca di dare spazio al confronto, alle domande, ai paradossi o a cose che non ci aspetteremmo nel comportamento dell’uomo in certe circostanze
Qual è la modalità di racconto e di comunicazione che hai usato?
Lo spettacolo cerca di comunicare/raccontare/confrontare in un modo abbastanza diretto e non ermetico. Non si chiude a rappresentare delle scene realistiche, ma cerca di sostenere una comunicazione continua e diretta con il pubblico. Gli attori in un certo senso cercano di avere la stessa prospettiva del pubblico: non sanno di più di loro su come sarebbe vivere veramente queste condizioni. Infatti, in un momento importante dello spettacolo, uno degli attori si chiede se (si) ha il diritto di parlare della sofferenza/del dolore se/quando non (si) soffre, e che è tutta un’altra cosa se Frankl scrive di quello che ha vissuto o se dal palcoscenico ne parla lui come attore, che non ha provato alcuna sofferenza… Questo non significa che non si dovrebbe farlo, ma forse è importante averlo in mente.
Hai utilizzato il metodo dello psicodramma?
Tomi Janezic: Si, le tecniche di psicodramma sono diventate parte del lavoro creativo che propongo. Si tratta prima di tutto di un’analisi creativa del materiale in azione. Ma anche un metodo di coinvolgimento personale e di gruppo. Dall’altra parte è possibile lavorare intorno a quelle difficolta che si incontrano nel processo e sfruttare i loro potenziali creativi. Il gruppo di attori con quali ho lavorato al BDT ha sviluppato una dinamica di gruppo molto forte e bella. Sono attori di talento di diverse generazioni e persone preziosissime.
Tu hai dichiarato che prediligi la fase laboratoriale con i tuoi allievi e attori alla produzione vera e propria: quanto questo approccio piuttosto originale, sperimentale e libero poi arriva dentro lo spettacolo vero e proprio nella fase di costruzione?
Mi sembra che su questo punto ci possono essere dei fraintendimenti. Prima di tutto dovrei precisare cosa intendo per un processo creativo: secondo me il processo creativo è sempre produttivo per definizione. Dall’ altra parte se un processo è solo un processo di produzione e non è spontaneo, non si può parlare veramente di un processo creativo o di una creazione. E in questo senso, secondo me, viviamo la crisi (forse sempre di più globale) creativa: c’è un’incredibile abbondanza di produzioni che vengono scambiate come creative. La divisione delle due fasi menzionate nella domanda può essere problematica: “la fase laboratoriale” in questo caso per me è “produzione vera e propria”. Forse non è esatto parlare di due fasi distinte, perché di fatto si tratta solo delle fasi di un unico processo creativo, oppure le si deve comprendere in questo senso: come una fase di riscaldamento per la creazione. Però si crea tutti i giorni in ogni prova! E non si creano solo scene o spettacoli, si creano anche rapporti, creiamo anche noi stessi… Sicuramente si “costruisce” in teatro (sic), come “costruiamo” anche nella vita, anche se tante volte non siamo consapevoli delle nostre “costruzioni”. Forse questa terminologia: “costruzione”, “produzione” porta con sé così tanti fraintendimenti in teatro che finisce per rappresentare un cliché, e in un certo senso queste parole appartengono alla terminologia meccanicistica del XIX secolo.
Il Gabbiano che hai presentato a Fabbrica Europa ha avuto un clamoroso successo di critica in Italia: era una sorta di “discorso sul teatro”. Tra poco tornerai in Italia con una produzione con attori italiani: cambierai il metodo di lavoro?
Il metodo di lavoro cambia in continuazione. So come lavoriamo in questo periodo ma non so come lavoreremo in futuro e dove il lavoro ci porterà. E questo mi interessa sicuramente. Si, lavoriamo su Čechov, ma penso/spero che troveremo nuove prospettive su come lavorarci.
Il Golden Mask è un premio prestigiosissimo e tu condividi la nomination con Castellucci e Wilson: cosa pensi possa legarti o distinguerti da questi due grandi registi internazionali?
Prima di tutto sono due grandi artisti che stimo. Mi sembra però che facciamo un teatro molto diverso, con strategie artistiche e forse anche obiettivi, diversi. Non penso che loro abbiano interesse nel campo che interessa di più a me cioè il processo creativo del attore – anche se non è affatto l’unica cosa che mi interessa in teatro – o almeno non ho l’impressione che si occupino di questo aspetto in un modo molto vicino al mio. Comunque il loro teatro è fonte di ispirazione. Come ogni buon teatro.
Anna Maria Monteverdi