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Teatrosofia #26. Genealogia della musica e noia della ripetizione in Lucrezio

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento riflettiamo, a partire dall’opera di Lucrezio De rerum natura,  sull’origine della musica

 

 

 

immagine da Wikipedia
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In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

I sei libri del De rerum natura di Lucrezio non costituiscono solo un’opera di immensa poesia. Secondo alcuni studiosi, essi offrono un’esposizione poetica dei contenuti dei libri in gran parte perduti del Sulla natura di Epicuro, dunque costituiscono prima di tutto un testo di scienza e di filosofia. L’impressione è confermata dai bei versi 1380-1416 del libro V, in cui Lucrezio descrive la nascita della musica e i godimenti che offriva agli uomini delle origini.

Diversi sono gli insegnamenti filosofici che vengono divulgati in tale sezione. Anzitutto, Lucrezio è convinto assertore dell’origine umana della musica e il suo carattere per così dire “evolutivo”. Nessun dio insegnò all’umanità a cantare, danzare e suonare, né la bocca, le mani e i piedi avevano sin dall’inizio la capacità di fare tutte queste cose, ma gli uomini stessi appresero a compierle «a poco a poco». Essi dapprincipio imitarono i suoni più semplici della natura, tra cui le voci degli uccelli e i sibili del vento sulle canne, poi realizzarono balli e canti articolati ma ancora senza grazia o ritmo, infine codificarono melodie e danze secondo una scansione ritmica o melodica. La musica progredì quindi da un nucleo semplice e casuale a un sistema complesso/formalizzato, invece di nascere subito tutta compiuta e perfetta, come Atena armata dalla testa di Zeus.

Busto di Epicuro, immagine da Wikipedia
Busto di Epicuro, immagine da Wikipedia

Il secondo insegnamento filosofico espresso in forma poetica da Lucrezio è più sconvolgente, per noi contemporanei abituati a riconoscere un valore educativo e conoscitivo alle arti. La musica non ha alle origini una funzione sacrale e cognitiva. Al contrario, essa assolveva l’unico ruolo concepibile per un Epicureo: quello di dare piacere, di divertire e di far passare del bel tempo in compagnia, mentre si mangia e si ride senza pensieri. La conseguenza implicita di questo discorso è che le funzioni nobili che attribuiamo oggi alle arti ne sminuiscono in realtà la vera natura e andrebbero perciò abbandonate, per fare come è doveroso di teatro, danza e simili un puro svago felice. Tutt’al più, si può riconoscere alla musica la capacità costruttiva di rimuovere i mali del dolore e della fatica. Ciò è almeno quello che si intravede attraverso lo stupendo dettaglio dei conforti che il primitivo incapace di addormentarsi riceve dal canto, che per Lucrezio ha il suo odierno corrispettivo nel soldato romano che presta servizio notturno, il quale sopporta la veglia forzata cantando e, forse, accennando qualche passo di danza nel buio fitto.

Quale terzo e ultimo insegnamento filosofico contenuto nei versi della genealogia della musica, si annovera l’idea che esiste un rapporto direttamente proporzionale tra la piacevolezza e la novità. Quanto più una cosa è nuova nel tempo, tanto più essa è piacevole.

Nel testo, questa constatazione è funzionale a spiegare le cause ricorrenti del progresso nella storia. Se gli uomini passano ad esempio dal desiderare di succhiare le ghiande su giacigli di fronde ad ambire a masticare le spigole su un letto dorato, è perché oro e pesci risultano più piacevoli, per il fatto di essere stati scoperti più di recente dei corbezzoli e delle erbe. Ma potremmo anche spingerci leggermente oltre il testo, supponendo che la perdita della piacevolezza dipende anche dalla ripetibilità dell’esperienza. Per meglio dire, è stato il continuare a mangiare sempre e solo ghiande a far percepire il pesce come più appetibile / piacevole. Lo stesso discorso potrebbe essere applicato alla musica. Lucrezio dice espressamente che i canti sistematizzati in ritmi non risultano più piacevoli di quelli delle origini, e una spiegazione del fatto potrebbe essere che i primi risultano facilmente ripetibili. Quando gli uomini continuavano a scoprire nuove melodie e nuovi tempi di esecuzione, il piacere continuava a sommarsi al piacere. Ma non appena ricavarono dalla musica dei moduli ripetibili in ritmi codificati, essi cominciarono ad avvertire gli stessi godimenti e, a lungo andare, ad averli a noia, venendo così spronati a cercare qualcosa di sostitutivo e di più piacevole.

Questa interpretazione è compatibile con il discorso che Lucrezio fa pronunciare alla Natura nei vv. 933-949 del libro III. Questa rimprovera allo stolto che non vuole lasciare la vita di non riuscire mai a sentirsi appagato dai piaceri che gli offre, perché ogni nuova esperienza gli risulta a lungo andare sempre la medesima. La Natura arriva al punto di dire che costui non si libererebbe dal tormento neppure in una vita immortale, visto che continuerebbe a fare cose che lo annoiano senza rimedio.

Come comportarsi di fronte a questa propensione tutta umana di non accontentarsi mai di quanto è accessibile e di cercare sempre il nuovo? La soluzione dello stolto sarebbe quella di non ripudiarla, bensì di rendersi immortale e di inventare dei godimenti che non esistono in natura. Ciò significherebbe, a proposito della musica, che egli inventerebbe delle melodie progressivamente sempre più lontane da quelle generate dai venti e dagli uccelli, fino a produrre qualcosa che non assomiglia a niente di osservabile tra i fenomeni naturali. Il saggio epicureo proporrebbe invece di apprendere a trarre piacere dalla ripetizione: se il nuovo non ci accontenta e presto ci viene a noia, allora tanto vale imparare ad apprezzare il noto e l’identico. Ciò è del resto quanto fanno gli dèi, viventi che, non essendo soggetti ad alcun mutamento, non sperimentano mai qualcosa di nuovo e, se agiscono, agiscono sempre nella stessa maniera. E se mai sanno ascoltare la musica e abitano in un ambiente in cui possono darsi dei suoni, invece di abitare in uno spazio silenzioso come gli abissi marini più profondi e sordi, essi hanno un orecchio che ascolta sempre lo stesso identico motivetto, senza variazione di tono e di ritmo, senza cadute e improvvisi squilli.

 

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Ma le limpide degli uccelli voci imitar con la bocca / venne molto prima che gli uomini gli armoniosi carmi / col canto render potessero, e far cosa gradita all’udito. / E dello zefiro i sibili dapprima, attraverso la cavità delle canne, / ai campagnoli insegnarono a soffiare nelle cavità delle zampogne. / Poi a poco a poco i dolci appresero lamenti, / che il flauto effonde dalle dita tócco dei flautisti, / per i boschi fuori mano e le selve e le balze scoperto, / per i luoghi dei pastori deserti e gli ozi divini. / Così ogni cosa poco a poco il tempo fa / scoprire, e la ragione della luce alle plaghe fuori trae. / Tali suoni dilettavano i loro animi e facevano piacere / insieme all’abbondanza di cibo; allora infatti tutto sta a cuore. / Spesso dunque tra di lor giacenti sulla morbida erbetta, / presso d’acqua un ruscello sotto i rami di un alto albero, / non con grandi mezzi davan con gioia ristoro ai corpi, / soprattutto quando il bel tempo arrideva e dell’anno / la stagione dipingeva con fiori il verde delle erbe. / Allora eran soliti esservi gli scherzi, allora i discorsi, allora i dolci / scoppi di risa; infatti allora una musa contadina era diffusa. / Allora il capo e le spalle a circondar d’intrecciate corone / di fiori e di foglie una scherzosità sfrenata spingeva, / e fuori del ritmo a procedere, le membra muovendo / senza grazia, e con l’indurito a battere piede la terra madre; / da qui nascevano scherni e dolci scoppi di risa, / perché allora tutte queste cose nuove e mirabili molto più avevano forza. / E a chi rimaneva sveglio da qui eran presenti conforti al sonno, / modular le voci in vari modi e volgerle al canto, / e sopra le canne con l’incurvato percorrerle labbro, / per cui anche le guardie ora questa usanza mantengono. / E dei ritmi a conservare il tipo hanno imparato, né frattanto / un maggiore di dolcezza frutto ritraggono / di quello che la silvestre stirpe ritraeva dei figli della terra. / Infatti ciò che è di tutti alla portata, a meno che qualcosa di più dolce / abbiamo per l’innanzi conosciuta, ci piace anzitutto e dominare sembra, / e una cosa migliore più tardi scoperta per lo più / manda quello in rovina, e cambia la sensazione quanto a ogni cosa passata. / Così principiò l’odio per le ghiande, così vennero abbandonati / quei letti di foglie sparse insieme con fronde (Lucrezio, Sulla natura delle cose, libro V, versi 1380-1416)

 

«Cos’è a te così tanto caro, o mortale, che indulgi a troppo / affliggenti parole di lutto? Perché la morte compiangi e lamenti? / Infatti se gradita fu a te la vita per l’innanzi trascorsa in antecedenza, / e non tutte le gioie, raccolte come in un vaso bucato, / fluirono via e senza bene vennero a morte, / perché non come un sazio della vita convitato ti fai indietro / e di buon animo prendi, o stolto, senza affanni un riposo? / A meno che tutto quello che ti sei guadagnato è stato sparso e perduto / e la vita hai in uggia, perché di più aggiungere cerchi, / quello che di nuovo vada malamente in rovina e senza bene tutto perisca, / e non piuttosto della vita la fine tu fai e dell’affanno? / Infatti per te, inoltre, quello che io macchinare possa e trovare, / tal che ti piaccia, nulla è: medesime son tutte le cose, sempre. Se il tuo corpo non è per gli anni ormai marcio e gli arti / spossati languono, pure tutte le cose restan le medesime, / se tutte continuassi vivendo a vincere le generazioni, / e anche piuttosto se tu mai dovessi morire!» (Lucrezio, Sulla natura delle cose, libro III, versi 933-949)

 

[La traduzione dei versi lucreziani è di Enrico Flores (a cura di), Titus Lucretius Carus. De rerum natura, 3 voll., Napoli, Bibliopolis, 2002-2009]


Enrico Piergiacomi

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2 COMMENTS

  1. Ancora una volta l’epicureo forse non del tutto sbaglia!
    L’arte nasce quasi per caso, senza scopo alcuno. E tale rimane per sempre se vuol esser detta arte. Le proprietà taumaturgiche che essa possiede sono soltanto una scoperta, una constatazione, una possibilità.
    Proprio come la camomilla, la quale nasce senza nessun altro scopo che l’esser camomilla. Il fatto che poi, a qualcuno possa distendere i nervi rimane un fantastico e puro caso.
    Quando invece si dà vita a qualcosa con uno scopo preciso (come per esempio trarne un qualsiasi utile) qualunque ne sia la forma, anche la più astrusa e innovativa, dovrebbe piuttosto esser detto “prodotto artigianale” e non “opera d’arte”.
    (non ricordo chi disse: “il nuovo affascina e presto annoia”… forse qualche epicureo?).
    Invece sui benefici e il piacere che si può trarre dalla ripetizione non mi sento ancora pronto!
    So bene che l’incontro RIPETIZIONE s’approssima e dovrei darmi un po’ da fare, ma per il momento divago e mi chiedo: ma le esperienza delle avanguardie musicali del novecento, dalla musica elettronica, alla minimale fino alla musica aleatoria, non sono forse tentativi di “naturalizzare” l’artifizio? non sono forse desiderio di “tornare a dipingere come un bambino”? d’altra parte se si esegue 4.33 (Cage) in un bosco possiamo senz’altro percepire le voci di uccelli e del vento come espressioni naturali e musicali nello stesso tempo.
    Grazie ancora per Teatrosofia.

    Claudio

  2. Caro Claudio,

    mi mancavano i tuoi commenti! Ovviamente, sempre istruttivi e puntuali.
    Anzitutto, una curiosità: perché scrivi “ancora una volta”? C’è stata un’altra occasione in cui ti sei trovato d’accordo con Epicuro e compagni? Mi sa che allora ti devo considerare un Epicureo (finora, ti facevo più vicino ad Aristotele). Quando scrivi “l’arte nasce quasi per caso, senza scopo alcuno”, sei in totale accordo con un’altra tesi lucreziana, ossia che non è la funzione che determina la nascita dell’organo (ex., la vista che origina l’occhio), ma al contrario è l’organo che apprende la sua funzione col tempo (ex., vedere). Eccoti le parole di Lucrezio:

    “Il resto di questo genere, che dà tali spiegazioni, / mette dopo ciò che viene prima, con ragionamento invertito, / poiché nulla perciò è nato nel corpo sì da poterlo / usare, ma ciò che è nato, questo crea l’uso. / Non fu la vista prima che le luci degli occhi nascessero, / non il dire parole eloquenti prima che la lingua fosse creata, / ma piuttosto della lingua l’origine ha di gran lunga preceduto / il discorso, e molto prima son state create le orecchie / che il suono fu udito, e tutte infine le membra / prima son state, come credo, di quando fosse il loro uso; / dunque non si sono potute sviluppare a causa di questo” (De rerum natura, libro IV, vv. 832-842)

    Applicando questo discorso al nostro tema, potremmo dire che non c’è stato un bisogno cultuale e/o catartico a determinare la nascita del teatro. Al contrario, è stata la funzione cultuale e/o catartica che si è sviluppata col tempo dal teatro, per intervenute necessità interne o esterne agli uomini.
    Sono poi perfettamente d’accordo sull’inutilità nobile dell’opera d’arte. Ne abbiamo già parlato in margine ad Aristotele. (Non conosco invece chi è l’autore della citazione, ma conosco bene i testi epicurei compresi tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C., e nessuno di loro riporta il pensiero).
    Nemmeno io sono ancora pronto sul tema “ripetizione”, essendo in fase di studio (quindi, siamo entrambi in alto mare!). Però mi pare che la tua ipotesi sia pertinente, per quanto possa giudicare in una materia che conosco poco e ho cominciato a conoscere con voi del gruppo. Del resto, può darsi che la ripetizione possa mirare a rendersi familiare l’oggetto che viene imitato, ad apprenderne la natura e, quindi, a provare piacere per la raggiunta conoscenza. Mi limito a lanciarlo come pensiero grezzo, col tempo si vedrà se ho detto qualcosa di sensato, o se ho bucato l’acqua.
    Grazie e te per i ringraziamenti. A prestissimo,

    Enrico.

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