Gender Beneder, il festival bolognese terminato l’ 8 novembre, giunge alla tredicesima edizione con un programma fitto di installazioni, incontri, danza e performance dal vivo. Una panoramica
Il dizionario di linguistica definisce gender bender «chi rifiuta un’identità di genere prefissata, trasgredendo al comportamento previsto dal suo genere». Il lemma – a sua volta riconducibile al termine queer (letteralmente “sopra le righe”, ma anche «chi ha orientamento sessuale e/o identità di genere diversi da quelli canonici») che ha assunto, specialmente negli ultimi decenni, un ampliamento semantico tale da ricondurlo quasi a una sorta di matrice teorico-concettuale – dà nome a un festival che giunge quest’anno alla sua tredicesima edizione. Sotto la direzione di Daniele Del Pozzo, la rassegna prodotta da Il Cassero LGBT Center costruisce e porta avanti un progetto ordito con una volontà di coerenza tale da farne una camera di concrezione per questioni oggi sempre più incisive non più soltanto nel dibattito sociale, ma nella necessità di trasferirle sul piano politico quali sinonimi di un ritardo civile da sanare.
Nel corso del tempo più di un progetto collaterale si è sviluppato intorno e oltre la manifestazione con particolare attenzione alla sfera coreutica. Non a caso allora grande spazio è riservato alla danza. Sul palcoscenico della Sala Salmon dell’Arena del Sole si avvicendano in un’unica serata I see the problem, not the solution e Yellow place. Il primo è un’indagine di rapporti e dinamiche sviluppatisi nell’incontro-scontro di maschile e femminile declinata dai tre interpreti sul binario doppio di coreografia e produzione del suono: mentre il tappeto acustico di Gašper Piano si cuce sotto i nostri occhi tra i graffi di un arco, la chitarra elettrica e la sintesi di una pedaliera che lo compatta e lo distorce, i due corpi di un uomo e una donna si avverano e si negano l’un l’altro in una successione di afflati e isolamento, armonia e dolore. Se l’incipit risulta efficace già dalla costruzione della prima immagine che vede lei, suggestione botticelliana, denudarsi per ammantare e coronare lui monarca della soggettività emotiva (il reggiseno e gli slip come una tiara e l’abito come una cappa reale), lo sviluppo dell’azione non riesce a generare la stessa attenzione, vittima di una slegatura tra i due, che anche dove voluta o funzionale a tratti alla resa dell’incomunicabilità, risulta tuttavia dispersiva sino alla riproduzione del travaglio conclusivo, per altro eccessivamente protratto. In Yellow place invece Mattia Russo e Antonio De Rosa inscrivono le proprie presenze all’interno dello spazio alternando sincronia e specularità del movimento con l’unico sporadico supporto di un carrello per la spesa, riuscendo a fare di esso piuttosto una vera e propria dimensione in cui la predominanza del giallo segna un campo reale e metaforico di costruzione della parabola di relazione – l’incontro e le sue possibili evoluzioni – senza tuttavia fornire mai una cella interpretativa troppo rigida. Stilisticamente riconoscibile nella sua filiazione contemporanea e post-contemporanea, il moto preferisce la verticalità per la costruzione delle figure che si susseguono con fluidità e una precisione abbastanza omogenea, facendo del controllo, meglio ancora della misura il pregio maggiore che caratterizza l’intera concezione di fondo del lavoro.
Di più ampio respiro per durata e articolazione Collective loss of memory dell’ensamble DOT 54, qui diretto dai coreografi Jozef Frucek e Linda Kepentea, in prima nazionale a Teatri di Vita. Cinque uomini, un proiettore al fondo, delle sedie e un microfono in cui come un inciso mantrico nero, sincopato, di tanto in tanto ricorre «Dear man, a man, manly, memory». Inizialmente disposti sui due lati della scena in profondità, poi seduti mentre ci si presentano in un inglese pulito sfoderando per la prima volta la riproduzione di un grosso fallo che tornerà più avanti, gli interpreti “esistono” sul palcoscenico in connessione costante a prescindere che lo facciano singolarmente, a coppie di due, a tre, innervati in alcune sequenze di quella ipnosi e di quel rigetto tipici dell’interdipendenza, come se le anatomie si fondessero in unica materia con differenti articolazioni. Inquilini e attori indefessi di corpi usati, abusati, dosati in una mistura di danza, tecniche di lotta, acrobazie di impatto innegabile, catturano lo spettatore, anche quando chiamato in causa lo lasciano inerme ai confini del possibile, per trascinarlo al contempo senza sosta o chance di sottrazione sul confine tra insofferenza e divertimento, fastidio e timore, perché in fondo il vero pericolo della violenza è nel suo essere primaria e per questo attraente, mai del tutto comprensibile, orrenda, suadente, spaventosa, policefala, immonda, naturalmente umana.
Il concetto di performance trova però coniugazioni diverse dalla danza, quantunque diverse tra loro. Teatro Sotteraneo propone qualcosa di molto simile all’happening. Fra gli scaffali della Coop di Piazza dei Martiri si susseguono una serie di azioni accompagnate dal canto dei Komos, introdotte da una voce fuori campo e contrassegnate dall’indicazione di un cartello su cui campeggia la scritta “Normality is an illusion”: sulle note di Moon river, Non ho l’età e pezzi più o meno noti eseguiti da un coro disposto dietro il banco rosticceria, sulle scale, davanti agli ascensori o nella stanza delle erbe, un astronauta riempie il cestino di tortellini freschi ai funghi porcini e salmone affumicato, la polizia scientifica marca col nastro adesivo la sagoma della vittima di un omicidio, uno zombie attenta al collo di una ragazza nel reparto frutta e verdura, un grosso panda tenta senza successo di regalare rose rosse alla cassiera, prima che Babbo Natale ubriaco faccia incetta di gin, birra e panettoni o che un wrestler sequestri e picchi alcuni dei cantanti. Il tempo quotidiano e quello della traslazione rappresentativa si compenetrano con la curiosità e lo spiazzamento che abbisognano a questo genere di operazioni, riuscendo a superare con sarcasmo necessario e privo di retorica alcune incertezze iniziali probabilmente dovute alla logistica contestuale. Nel bellissimo Teatro del Baraccano, Mariangela Gualtieri offre quello che viene definito “rito sonoro”, Le giovani parole. Sostanzialmente un reading in cui toni e ritmica vocale sapientemente misurati fanno da viatico alle liriche, sostenendo i versi nella creazione di immagini in grado di arpionare l’immaginario sensibile e attraversarlo in profondità, con la grazia estrema che caratterizza l’autrice nello svelamento della potenza del linguaggio, dell’estetica della parola detta oltre la pagina. Priva di qualsivoglia tipo di limite o schema fisso è la proposta di Daniel Hellmann, a seconda dei casi un po’ più e un po’ meno di una performance. Durante Full Service, tutto è possibile: concordato un prezzo e col beneplacito della temperanza del suo protagonista, chi si siede al tavolino della contrattazione può chiedere qualunque, proprio qualunque cosa, ogni genere di prestazione (chi scrive per pochi euro ha acquistato una “morte del cigno” cantata e danzata all’istante con una certa applicazione nel cortile del Cinema Lumière). Sospesi nella difficoltà di inserimento e valutazione all’interno di canoni attesi, più definiti, l’innegabile attitudine “di rottura” ci vuole tutti un po’ ruffiani, un po’ clienti, comunque incapaci di smettere di pensarci, di pensarla.
La vocazione artistica di base dell’intera manifestazione beneficia di una fruibilità e fruizione estesa senza rinunciare alla sua ragione primaria, e si conclama con la giusta dose di riflessione, ironia e delicatezza fra gli eventi che reticolarmente abitano la città di Bologna fra proiezioni cinematografiche, incontri, installazioni e performance dal vivo.
Marianna Masselli
Visti a Bologna, novembre 2015
I SEE THE PROBLEM, NOT THE SOLUTION
interpreti Ivan Mijačević, María de Dueñas López, Gašper Piano
musica dal vivo Gašper Piano
YELLOW PLACE
idea, coreografia e interpreti Mattia Russo e Antonio de Rosa
drammaturgia e testi Paco Becerra
costumi David Delfin
COLLECTIVE LOSS OF MEMORY
coreografia Jozef Fruček & Linda Kapetanea
interpreti Nathan Jardin, Joona Kaakinen, Knut Vikström Precht, Dano Raček, Tom Weksler
musica originale Vassilis Mantzoukis
stage design Jozef Fruček
light designer David Prokopič
JUKEBOX
di e con Teatro Sotterraneo
in collaborazione con Komos – coro gay di Bologna
LE GIOVANI PAROLE
rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri
con la guida di Cesare Ronconi
FULL SERVICE
concept & Performance Daniel Hellmann
drammaturgia Wilma Renfordt
scenografia Theres Indermaur
produzione Daniela Lehmann