FIlippo Dini mette in scena Ivanov di Čechov. Recensione dal Teatro Eliseo
Un cicaleccio interminabile aleggia sul Teatro Eliseo ancor prima che inizi lo spettacolo. La scena, aperta fin dall’ingresso degli spettatori, è quella di un esterno assolato; le pareti della tenuta sono accompagnate da un insolito mobile: è un uomo seduto al tavolino, legge, costretto in una tensione che lo direbbe concentrato ma che invece rivela una ferita dell’animo più che della pagina. Viene preso alle spalle, con una pistola puntata. Ma anche quando questa fosse reale minaccia, sembra poco più che un fastidio, un grattacapo da scacciar via quasi fosse una mosca.
È Ivanov, la prima delle creature teatrali di Anton Čechov, l’uomo stolto, collerico, perennemente in conflitto con gli altri e col mondo, insoddisfatto, deluso dalla vita, colui che avrebbe voluto essere ciò che non ha ottenuto. Non bastano le definizioni per questo personaggio che non si può fare a meno di detestare e amare allo stesso tempo, di riconoscersi in lui. Le sue debolezze sono dannatamente umane: l’aver sposato una moglie ebrea forse più per una convenienza economica – sfumata nel momento in cui lei decise di abbracciare la nuova fede per il marito – e ora lasciata perennemente sola anche se in fin di vita; l’istinto che lo porta a fuggire via perché mai riesce a chiamar casa qualcosa, nemmeno l’amore donato incondizionatamente, quella promessa di felicità che offrono le braccia della giovanissima figlia dell’amico. Non è la storia che regge il dramma, non sono le vicende del vecchio zio misantropo, i debiti, la rabbia che Ivanov svuota indistintamente su servitori parenti e amici né i tradimenti o i drammi amorosi delle giovani donne, passionali e sempre attratte dall’uomo sbagliato. È il senso dell’inevitabile implosione dell’anima, che paradossalmente emerge quando costretta a confrontarsi col vuoto, con quel nulla eterno di foscoliana memoria.
Questa versione diretta e interpretata da Filippo Dini e prodotta in combinazione dal Teatro Due di Parma e dal Teatro Stabile di Genova, porta altrove: si presenta in una veste tragicamente grottesca guidata da un formidabile ritmo per tutte le due ore e mezza di spettacolo. Non dorme dunque di apatia Dini-Ivanov, anzi, perennemente si scaglia contro tutto. A contrastarlo si trova, ad esempio, la pretesa di onestà del dottore L’vov, qui Ivan Zerbinati, ottuso nel difendere scioccamente quel senso di superiorità di chi vorrebbe dirsi sempre nel giusto e invece si trova a non aver compreso la vita. Si scontra con la purezza di Anna Petrovna, una Sara Bertelà che, mai eccessiva, regge felicità e dolore su un sottile filo di incoscienza. O ancora la caparbietà innocente di Valeria Angelozzi, poco più che bambina convinta di poter cambiare l’immutabile.
Le parole si sporcano di una pastura dialettale che a volte rasenta l’incomprensibilità da grammelot ma che, d’altra parte, riesce a donare efficacemente un vibrato vitale nonostante l’esasperazione di alcuni toni e la semplificazione dei personaggi; questa talvolta li porta a perdere quella vita sotterranea che scorre dentro le anime di Čechov. Il continuo parlare a vuoto del protagonista, il suo appellarsi Tartufo e Amleto, una scrittura ancora per alcuni tratti meno matura hanno contribuito a erigere per questo testo una fama negativa – “noiosa e polverosa” si legge nelle note di regia. Anche agli esordi fu un insuccesso e qualcuno ricorderà la freddezza e l’incomprensione con le quali fu accolto a Roma l’adattamento che ne fece Nekrošius un po’ di anni fa.
Il pubblico dell’Eliseo invece segue e applaude, lasciandosi divertire dagli interni a tinte forti, quasi felliniani, di casa Lebedev, dal concerto di voci pettegole che aggiornano gli eventi, dall’ultimo drammatico saluto tra Anna e Ivanov – bauschiano hanno ricordato molti. A noi è arrivato il gesto scenico che chiudeva il primo atto, quando lo strozzamento del cuore è rappresentato con un soffocamento del palco: le pareti, mosse a vista, si restringono sulla passione appena nata, il nostro sguardo è il punto di vista di chi è ferito; ci si nega la vista, così come muoiono le parole. Non a caso il secondo atto conserva un gelo che nella freschezza del primo rimaneva sepolto; se nel primo si preferiva «il riso, la leggerezza ai mali della vita della malattia, a una disamorata eccessiva noiosa banalità» (si apprezzi anche la nuova traduzione di Danilo Macrì), durante l’ultima ora il cinismo e il dolore affiorano maggiormente, nei colori della scena (di Laura Benzi, in un equilibrio che va oltre la ricerca del naturalismo degli ambienti, ma si fa specchio di qualcos’altro), nell’energia di tutti gli attori, anche quelli un po’ meno scolpiti, più caricaturali.
La verità, quella espressa dalla giovane Sasha in difesa estrema di un uomo che oramai si è arreso alla vita, non può esser più udita, c’è un rumore che stride sempre di più, fino a sovrastare del tutto le sue parole. Il tragico, forse verrebbe da dire in relazione a quanto visto, non può aver più luogo. Al posto del fastidio iniziale, al posto dello sparo udito da lontano (come vorrebbe la didascalia), quella che abbiamo davanti è la messa in atto di un’impossibilità. Fuggire dal tempo, oppure urlare senza essere ascoltati.
Viviana Raciti
Visto al Teatro Eliseo, Roma, in scena fino al 15 novembre 2015
Lugano-Teatro Lac, 17 e 18 ottobre
Roma – Teatro Eliseo, dal 3 al 15 novembre
Vignola – Teatro Fabbri, 17 novembre
Pordenone – Teatro Verdi, 18 e 19 novembre
Parma – Teatro Due, 20, 21, 22 novembre
Imola – Teatro Stignani, dal 25 al 29 novembre
Trieste – Teatro Rossetti, dal 16 al 20 dicembre
IVANOV
Di Anton Čechov
Traduzione di Danilo Macrì
Con Filippo Dini, Sara Bertelà, Nicola Pannelli, Gianluca Gobbi, Orietta Notari, Valeria Angelozzi, Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Fulvio Pepe
Regia Filippo Dini
Scene e Costumi Laura Benzi
Luci Pasquale Mari
Musiche Arturo Annecchino
Produzione Fondazione Teatro Due, Teatro Stabile di Genova
Bellissimo allestimento, con un’idea regista forte e degli ottimi interpreti, nessuno escluso (anche se qua e là affiora una una dizione che ne connota immediatamente la provenienza da Genova). Le scelte di regia (su tutte la bellissima scena finale del suicidio) , la mimica e la gestualità di Dini, la bella scena conferiscono all’allestimento una patente di eccellenza, appena scalfita da qualche eccessiva concessione al buffonesco di alcuni passaggi ed al ritmo vaudeville di un paio di scene, subito però riassorbiti dal perfetto schema generale dello spettacolo. Tra i 9, meravigliosi interpreti, segnalerei Valeria Angelozzi, un’appassionata ed efficacissima Sasha: farà molta strada.