Una riflessione sullo stato dell’arte della commedia. Approfondimento apparso su Hystrio – anno XXVIII 4/2015
Che fine ha fatto la commedia? Ce lo chiedevamo su queste pagine quasi due anni fa. A far scaturire il dibattito fu lo spettacolo Farà giorno, scritto da Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi e diretto da Piero Maccarinelli, visto al teatro Sala Umberto di Roma. Un lavoro che riusciva a recuperare i tratti della commedia italiana impegnata anche grazie a due attori eccellenti, il giovane Alberto Onofrietti e quel campione di naturalezza che è Gianrico Tedeschi. Lo spettacolo poi ebbe modo di girare ulteriormente, anche a Milano, e di avere, qualche mese fa, un passaggio in prima serata su Rai 5. In questo caso la comicità nasceva da un impianto molto classico, ma funzionale: l’incontro di personaggi agli antipodi, un fascista, che oggi qualcuno chiamerebbe “del nuovo millennio”, e un vecchio comunista. I modi rudi del primo a contatto con l’ironia del secondo costituivano quella chimica necessaria a far scaturire una linea comica credibile, mai pedante, ma comunque in grado di parlare a interlocutori contemporanei.
Allora vale la pena tornare oggi a riflettere sul quesito che dava il titolo a quell’articolo. I tempi però cambiano con una velocità spasmodica e la percezione del comico segue questa mutevolezza con altrettanta foga. C’è ancora spazio sui palcoscenici contemporanei per la commedia? Il comico è quasi sempre presente in alcune forme – dal popolare cabarettista che fa la spola tra palchi e tv al comedian più raffinato e underground, dall’artista indipendente che mette la comicità al servizio della ricerca fino all’ironia concettuale di certi esperimenti performativi o legati alla danza. Ma siamo ben lontani da testi drammatici strutturati all’interno di un ambiente dialogico costruito sulle solide fondamenta di una serie di avvenimenti legati da una sequenza logica e temporale. E qui è il problema: il Novecento ha spazzato via dalla storia del teatro quella che veniva spesso chiamata “subalternità al testo letterario”, ha liberato gli intrecci dalla logica e dal tempo, affrancandosi dalla narrativa tradizionalmente intesa.
Ed è un meccanismo più che naturale in tutte le arti, ognuna delle quali si esprime anche attraverso le avanguardie; ma è anche vero che il teatro italiano zoppica invece proprio nella linea mediana, in quella fascia che dovrebbe dedicarsi a un teatro popolare d’arte, di alto livello ma con lo sguardo rivolto a un pubblico ampio. Proprio in questa fascia dovremmo trovare i migliori esempi di teatro drammatico comico. La commedia non solo deve vedersela con i grandi mutamenti artistici novecenteschi, ma anche con la difficoltà insostenibile di rincorrere quei cambiamenti sociali e culturali che negli ultimi trent’anni hanno segnato il Paese. Perché qui la questione è profondamente legata ad ambiti quali la sociologia, la comunicazione e la massmediologia. Si ride come si rideva decine di anni fa? Sorridiamo per gli stessi motivi? Cosa stuzzica il nostro riso più viscerale e cosa fa scaturire quello mentale?
Se a teatro scegliamo una commedia vogliamo ridere, è un’attesa naturale. Ed è altrettanto naturale indispettirsi quando una battuta non viene raccolta dal pubblico, provocando talvolta – ai più sensibili e appassionati – quella sensazione quasi di empatica vergogna per il povero attore. Ma attenzione, non solo vogliamo ridere, dalla platea pretendiamo che la risata sia parte di una riflessione generale, di una costruzione complessa che ci metta in contatto con i dubbi con cui l’uomo contemporaneo deve confrontarsi. E se questa riflessione si muove all’interno di un’architettura drammatica e dialogica allora possiamo parlare di commedia e domandarci per quale motivo è così difficile vederne di qualità.
“Estemporaneità” è la parola chiave per decifrare la percezione del comico nel nostro tempo. La televisione, inseguendo i micro formati del web, ha ormai compreso che è più facile e conveniente far ridere utilizzando i contenuti generati dall’utente che scrivere nuove storie. Davanti ai nostri schermi ridiamo per video virali registrati dall’altra parte del globo: un adolescente giapponese con il suo gatto cantante, il ragazzone americano che balla e stona, il frenetico montaggio di una serie di errori di sportivi amatoriali e l’elenco potrebbe continuare. Non c’è il filtro della finzione, non c’è costruzione, ridiamo perché potremmo essere davvero noi i protagonisti. L’intrattenimento quotidiano fornito dalle milioni di pillole divertenti caricate sul web sta sostituendo l’intrattenimento comico generalista. Non è un caso se Mediaset ha chiuso (a quanto pare per un anno) lo storico Zelig, ma continua a mantenere una striscia quotidiana estiva di Paperissima.
Al teatro allora non rimane che alzare l’asticella e muoversi in direzione ostinata e contraria. Provare quindi a recuperare la tradizione superandola: lo spettatore non si aspetta più solo la battuta facile, ma qualcosa che lo faccia confrontare con i grandi mutamenti che lo circondano. Per questo nel comico i percorsi più interessanti degli ultimi anni vanno rintracciati nei territori della ricerca, nei luoghi più o meno indipendenti dove hanno coltivato i propri linguaggi artisti come Daniele Timpano e Andrea Cosentino, tra quelle figure che Nico Garrone definì con la sigla I.C.C.P. (iconoclasti, comici, concettuali, poetici). Aldo Morto di Daniele Timpano fa ridere, certamente, ma apre anche vuoti di coscienza, mette in discussione la nostra memoria cortocircuitando la storia del Paese con quella del singolo; Cosentino pone le sue storie nel mezzo di esplicite interferenze della realtà nella finzione e viceversa, ma il precipitato dell’esperimento è sempre la ricerca di un’emozione profonda o l’illuminazione di un angolo apparentemente buio.
I classici possono insegnare. Uno dei lavori comici di maggior successo delle ultime stagioni è stato il Servo per due di Pierfrancesco Favino. In quel caso il recupero delle atmosfere e dello stile della Rivista, con tanto di musica dal vivo, uniti a una riscrittura dai ritmi contemporanei (di Richard Bean) della celebre pièce di Goldoni ha aperto un percorso interessante e da guardare con attenzione. Così come non era scontato il successo del Sarto per signora con Emilio Solfrizzi per la regia di Valerio Binasco. I due si mettono a servizio del testo entrando negli ingranaggi infallibili del vaudeville di Feydeau. Ma segnali da non sottovalutare arrivano anche da produzioni più piccole, come nel caso di Clandestini, testo di Gianni Clementi prodotto da La Bilancia, una realtà di produzione che sulla commedia ha puntato tutto e con la quale riempie i cartelloni di due teatri, il Martinitt di Milano e il Teatro de’ Servi a Roma. Clandestini immaginava un futuro distopico nel quale gli italiani sarebbero emigrati in Africa per migliorare una condizione economica ormai allo sfacelo. Mettere lo spettatore davanti a uno specchio deformato, disturbarlo con l’inatteso, cercare nel reale quella complessità con cui mandare in crisi le certezze: questo – attraverso una risata non solo liberatoria ma illuminante – dovrebbe tentare la Commedia per sopravvivere e rinnovarsi.
Andrea Pocosgnich
Twitter @AndreaPox
Ciao Andrea, credo che “ridere” e “far ridere” nel mondo delle proposte teatrali, soprattutto negli ultimi dieci anni, non sia stato visto con occhi interessati da parte della critica e degli operatori. Se i testi e le messinscena non hanno una buona componente di incomprensibilità e magari fanno anche ridere, c’è un problema. Lo dico così per ridere. “Il teatro contemporaneo: uno parla e contemporaneamente il pubblico non capisce un ca…” (Psycho Killer)