Ascanio Celestini con Laika in prima nazionale per Romaeuropa Festival 2015. Recensione
Avviso ai naviganti. Non prendete altri impegni. Non c’è il dopoteatro, dopo Laika di Ascanio Celestini, non c’è da andare a bere. Si torna in un posto intimo, isolato, se necessario. Si torna là dove quel che si vive riscatta il proprio carattere artistico e si rigetta nella realtà. Ecco, in quel momento si affina il concetto di verità che in teatro è sovrano, si accoglie il postulato dell’arte, lo stimolo emotivo, gli si concede confidenza sensibile come la mano allo sposo, una donna innamorata. È per questa densità della parola evocata, questa concomitanza poetica, che non si può elidere dalla propria serata in un teatro la presenza del teatro stesso in voi che ve ne andate. Arresi all’evidenza di essere nello stesso tempo in cui le parole si fanno urgenza visiva, lacrima sonora e dolente meraviglia, si raccoglierà un segreto condiviso, quella emozione confessata senza malinconia, con rabbia di ribadire la propria esistenza contro l’indifferente dispersione.
C’è un sipario rosso, alle spalle dell’attore. Cela una catasta di casse di plastica colorata, elementi componibili sui quali sedere ma prima ancora simbolo del lavoro di fatica. Un’atmosfera densa, caricata da un’emozione non repressa, attraversa le note di fisarmonica con cui Gianluca Casadei entra nel dialogo, riportando la memoria al primo tempo del teatro di Celestini, intriso di materia e insieme di lirismo. Le parole dell’attore sono come le piccole abat-jour disseminate sulla scena, amplificano la supremazia del buio indiavolato in cui un uomo inizia verso i «signori del bar» il suo racconto, fatto di racconti. Quell’uomo nelle tasche non ha che un biglietto del tram da obliterare e che dopo troppi pochi minuti sarà scaduto, una bottiglia di sambuca imbevibile, qualche gettone per i carrelli del supermercato, di quelli che fuori di lì non valgono niente; i personaggi che si aprono a ventaglio dal suo parlare, ognuno dei quali dirà di sé in prima persona, sono composti della stessa materia di quella povertà radicata; la donna con la testa impicciata, la vecchia che non crede, la prostituta, i facchini del supermercato, sono emarginati che vivono lo stesso angolo di quartiere e innescano relazioni a partire dalla propria differenza, da ciò che li distingue e li separa dalla più larga comunità. Sono perduti, senza appello. Ma lo sono alla stessa maniera della cagnetta Laika lanciata nello spazio da una capsula spaziale sovietica nel 1957 e di cui nessuno ha più avuto notizia, ma anche dello scienziato Stephen Hawking, genio dell’astrofisica capace di teorizzare l’inesistenza di Dio, costretto già adolescente all’immobilità da una grave forma di sclerosi: ognuno perduto a modo suo, ognuno accomunato dalla differenza cui non c’è rimedio, qualunque sia il ruolo e la statura riconosciuta della loro esistenza.
E poi c’è il lavoro, ciò di cui si parla come concetto astratto torna qui con una concretezza imponente, quella forza della protesta sociale (in un altro dialogo con la voce registrata di Alba Rohrwacher) mai intaccata, anzi forse raddolcita, dalla intensa vena poetica: i corpi dei facchini «negri» che hanno bloccato un supermercato per i licenziamenti ingiusti di due colleghi, le condizioni ridotte al limite dei diritti civili, i turni disumani, i salari da fame, ogni cosa emerge con l’obiettivo ben preciso di tenere al centro l’uomo, ossia colui che le subisce e le esegue con una duplice condotta – ora vittima, ora carnefice. A questo fa dunque da contraltare un’ispirazione poetica a volte ironica, altre commovente, come per tutti valga la fuga del “santo bevitore” e narratore verso quel punto preciso, dove comincia il mare.
Se la struttura non è ancora stabile, lo è la vibrazione continua prodotta dal gioco di rimandi e ritornelli, elementi della fiaba da cui Celestini non sembra volersi separare, come quel paradosso che vuole l’imminente crollo, quindi la crescente prossimità, della volta celeste e la concomitante distanza di un creatore vigile. Ma se questo è il mondo dell’indifferenza, dell’uomo verso l’uomo, dov’è lo sguardo di Dio? Dio è retorica nei corpi dei barboni ignorati, dei facchini caricati dallo sgombero, dei «negri» annegati nel mare, dei vecchi e di chiunque trasudi dall’immaginazione l’inconsistenza della propria vita reale, decretandone il trionfo artistico, essenziale, quindi umano. Celestini è con essa, con l’astrazione del puro realismo ormai forma tipica del suo teatro, che affronta l’argomento principe, l’inammissibile esistenza di Dio in una società inadatta sia a contenerlo che a farne a meno come entità agente, riaffermando – tra i pochi artisti a tentare voli così alti – il duraturo rovello di un altro artista come Romeo Castellucci, ma in tutt’altra forma; qui la sintesi figurativa, che in Castellucci si anima lacerando il corpo perché se ne liberi lo spirito, si raccoglie nei lineamenti di personaggi esemplari, dimenticati e perduti come individui, ma che riacquistano valore quando riuniti di nuovo in una pur esile collettività. Come a voler dire che se non esiste Dio, il solo miracolo possibile è quello che fa l’uomo quando salva un altro uomo.
Simone Nebbia
Teatro Vascello, Romaeuropa Festival 2015 – Fino al 16 novembre 2015
LAIKA
Uno spettacolo di e con Ascanio Celestini
Fisarmonica Gianluca Casadei
Voce Alba Rohrwacher
In co-produzione con Romaeuropa Festival 2015