Il Prezzo di Arthur Miller in scena al Teatro Argentina. La Compagnia Umberto Orsini diretta da Massimo Popolizio. Recensione
Il ricordo del passato – imponente, intramontabile, insostituibile – è ingombrante come i giganteschi mobili che riempiono tutta l’altezza della scena del Teatro Argentina al debutto della Compagnia Umberto Orsini diretta da Massimo Popolizio ne Il prezzo di Arthur Miller. Dopo l’avventura attoriale dei Lehman Brothers, qui Popolizio torna su una delle fratture fondamentali della cultura americana, in una forma che in certi momenti sente, come la storia di cui si fa latrice, un po’ il peso del tempo. Il prezzo del titolo è quello che deve esser stimato per la vendita di una mobilia appartenente a due fratelli che non si incontrano da sedici anni a causa di un dissidio familiare. A partire dal semplice spunto vengono fuori le insoddisfazioni, il risentimento, le tragedie dichiarate – la crisi del ’29 – e quelle rimaste sepolte dalla polvere di chi non vuol vedere.
Popolizio, scegliendo la strada di una regia che si affida agli attori mentre il resto sembra immutabile – uno spazio in cui nemmeno i suoni delle demolizioni che provengono da fuori riusciranno a muover qualcosa – fa emergere tuttavia le doti dell’ensemble affiatato. Spiccano l’interpretazione sfuggente e divertita di Orsini nei panni del vecchio antiquario Solomon e la resa volutamente legnosa e goffa del regista, qui anche attore, che riserva per sé il ruolo di Victor, il fratello che ha deciso di sacrificare la propria vita per assistere il padre. Il suo sembra il ritratto dell’uomo che si è accontentato, tiranneggiato dalla moglie Esther (un’Alvia Reale a volte un po’ ingabbiata) o sbeffeggiato dal fratello Walter, che si offre di tirarlo fuori dalle ristrettezze economiche al costo di un cedimento morale.
Il retaggio ebreo dell’autore si riflette nell’impossibilità di risoluzione, la verità di quei rapporti soffocanti rimane tra le mura grigie, impossibile stabilire chi avesse ragione; i personaggi non risolti, fumosi, tragicomici, si appoggiano alle tecniche degli attori che supportano il ritmo lasciandoci nell’amarezza quando, nel finale, il vecchio antiquario, contento di aver beffato tutti se stesso compreso, continua a ballare sulle note di un grammofono e sui botti del nuovo che avanza.
Quando nel 1968 scrisse Il prezzo, Arthur Miller aveva già alle spalle il successo di opere quali Erano tutti i mei figli, Morte di un commesso viaggiatore, Uno sguardo dal ponte; mentre sul piano personale si contavano già diversi matrimoni, il divorzio turbolento da Marylin Monroe, un figlio – disconosciuto sino in punto di morte – affetto dalla sindrome di Down. Su un crinale in discesa emerge un pessimismo all’interno di questo testo (l’ultimo prima di un salto lungo due decenni) che ricorda un passato ingombrante senza possibilità di risoluzione. Duplicato tanto sul piano economico quanto su quello personale – un look back ma senza la rabbia degli inglesi, con rassegnazione e rimpianto, semmai – è uno dei punti di non ritorno per gli americani, che nel crollo delle borse del 1929 videro svanire in pochissimo tempo la propria agiatezza economica riflessa in un atteggiamento di chiusura umana.
La modernità e il consumismo che implacabili scorrevano non hanno più spazio per le cose eterne: che si stia parlando di un tavolo troppo largo per entrare nelle porte delle moderne case o della fede incrollabile della sincerità di un vecchio padre distrutto, poco importa. Bisogna cambiare, comprare, vendere, distaccarsi. Eppure nulla si muove. C’è un lavandino da cui scorre un filo d’acqua, si sentono i boati del progresso che demolisce per costruire nuove case. Ma la scena rimane intatta, intrappolata lì come i dialoghi in un passato, «come se non avessimo nemmeno avuto una vita». Il rischio è quello di rimanere tra le macerie di un rapporto creduto imprescindibile, senza credere che «non ci fosse pietà», da nessuna parte.
Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti
In scena al Teatro Argentina fino all’8 novembre 2015
IL PREZZO
di Arthur Miller
traduzione Masolino D’Amico
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca, luci Pasquale Mari
regia Massimo Popolizio,
direzione artistica Umberto Orsini
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio, Alvia Reale, Elia Schilton
produzione Compagnia Orsini
Taccio di altre astrusità e barocchismi e mi soffermo su queste “perle” dell’articolo:
1.Il regista si chiama Popolizio e non Populizio;
2. la frase “Populizio, scegliendo la strada di una regia che si affida agli attori mentre il resto sembra immutabile – uno spazio in cui nemmeno i suoni delle demolizioni che provengono da fuori riusciranno a muover qualcosa – emergono tuttavia le doti di questo ensemble affiatato” non sta in piedi;
3. l’inciso della frase “un figlio – disconosciuto se non che in punto di morte – affetto dalla sindrome di Down” è sgrammaticato;
4. nella frase “su un crinale in discesa emerge un pessimismo all’interno di questo testo (l’ultimo prima di un salto lungo due decenni) che ricorda a un passato ingombrante senza possibilità di risoluzione” segnalo il passaggio “ricorda a un passato..”.
Gentile Enzo, la ringraziamo sinceramente per l’attenzione dedicata al nostro articolo. Purtroppo è accaduto che alcune modifiche apportate in fase di editing non siano state salvate al momento della pubblicazione. Probabilmente per problemi di connessione. Ci scusiamo dunque con lei e con gli altri lettori per i refusi e per gli errori di sintassi. E la ringraziamo ancora per averli segnalati.
Quanto alle “astrusità” e ai “barocchismi”, speriamo di incontrare altrove favori più limpidi da parte sua. A presto.
Sergio Lo Gatto
– per la Redazione –
Pur discostandosi positivamente dal coro di piatti e acritici elogi che lo spettacolo ha finora riscontrato, faccio presente che la Sua recensione non affronta due questioni secondo me fondamentali: i tagli e, ancora peggio, l’infedeltà alle didascalie. Due fattori che in questa interpretazione hanno diminuito di molto il valore della pièce. Per cui anche il giudizio sul testo di Miller che, secondo Lei, a tratti sentirebbe “il peso del tempo”, è, a mi avviso, totalmente da rigettare. Piuttosto è stata la recitazione che spesso ha impedito di capire il senso della storia.
Per la mia recensione si veda http://marcopizziparalipomena.blogspot.it/2015/10/il-prezzo-didascalie-escluse-popolizio.html