SabirFest 2015. Seconda edizione del festival culturale a Messina
C’è qualcosa di profondamente contemporaneo, almeno come intenzione, come indizio di una magnifica bontà espressiva, nel ricorso artistico alla comunione di culture, di lingue, di esperienze; la vitalità dell’arte di questi anni ha nei muscoli una molteplicità di filamenti capaci di fondersi nell’unica finalità del movimento, che sia netto, deciso, o che si perda in un gesto vago ed estetizzante. Ed è proprio in virtù di questo coinvolgimento che la direzione del SabirFest 2015, giunto alla seconda edizione, ha ideato una vera e propria invasione di spazi diversi che animassero Messina di una propulsione vorticosa e vibrante.
Sabir è una lingua. Fatta di lingue. Ma le lingue sono fatte di uomini o, meglio, delle intenzioni che presiedono a un linguaggio. Là dove se ne sviluppa una è perché una comunità di uomini – che si tratti di un gruppo familiare, quindi di appartenenza, o di lavoro, quindi di opportunità – ha cercato una struttura di dicibilità, ha cioè tradotto in forma di comunicazione l’espressione. Sabir nasceva lungo il XIX secolo nei porti del Mediterraneo come una koinè, una lingua di necessità fatta di mescolanza; il “piccolo moresco”, com’era anche chiamata, permetteva una maggiore fluidità dei rapporti tra pescatori e commercianti, ossia tra due precise funzioni: produzione e fruizione. Se possiamo dunque astrarre e fare un gioco, diremmo che quel legame diviene molto simile a quello che in contesti artistici si attiva tra l’attore (ma anche tra l’operatore culturale, insomma, una direzione artistica di un teatro o festival) e il suo pubblico.
E, dunque, si giochi. SabirFest si proponeva come una presenza radiale, diffusa, sul territorio messinese, tale da coinvolgere una ricezione di ampio respiro (5000 i visitatori, secondo le stime del festival). Per questo è stato promosso un programma di moltissimi eventi (88 tra incontri con gli autori, presentazioni di libri e spettacoli, per un totale 140 ospiti da tutta l’area del Mediterraneo) e una scelta di luoghi da recuperare al patrimonio comunitario come il Monte di Pietà distrutto dal terremoto del 1908, oppure di passaggio come la Galleria Vittorio Emanuele, dove l’incontro è suggerito per una convergenza naturale di aggregazione sociale. Proprio il primo è diventato il luogo di una delle tante forme che le Metamorfosi di Roberto Latini hanno acquisito durante l’estate appena trascorsa (leggi l’articolo di Alessandro Iachino sulla versione per Inequilibrio e la riflessione di Andrea Pocosgnich dopo la versione presentata a Orizzonti). Eppure l’ambiziosa vitalità del progetto, sostenuta dalle istituzioni e da cospicui interventi privati, non sembra ancora aver raggiunto una maturità capace di convertire le buone intenzioni in un coinvolgimento totale, in un linguaggio comune, Sabir appunto, che affranchi dall’isolamento e dalla marginalità la cultura in un centro urbano, una lingua comunitaria capace di ammorbidire e, meglio, assimilare le differenze in un grande movimento collettivo.
Le motivazioni di questa difficoltà sono certo da ricercarsi nella gioventù dell’operazione, a volte tradotta in minore esperienza sicuramente da ampliare nelle prossime edizioni (bella iniziativa l’uso di volontari dalle scuole cittadine, i Sabirici, ma vanno usate meglio le loro energie), forse anche nella moltiplicazione eccessiva degli incontri che, ridotti, avrebbero potuto essere meglio monitorati e gestiti, oltre che promossi e frequentati. Tuttavia il problema sembra più ampio e ha a che vedere con un concetto di proposta culturale che non risponde più alle necessità contemporanee: questo evento è un piccolo grande evento, una mostra di opportunità e non una radicale innervata ricerca di contiguità tra quelle due funzioni di una buona pratica culturale; perché la produzione e la fruizione se non viaggiano insieme non sono termini di un binomio ma attività separate e monche, incapaci di determinare una crescita, che sia individuale o collettiva. Un esempio evidente è la scelta di chiudere con un progetto come Anime migranti, spettacolo concerto firmato da Mario Incudine con la sua band e la presenza al microfono di Moni Ovadia e Annalisa Canfora. Lo spettacolo, nello spazio sbagliato per acustica e visibilità del Palacultura, è articolato tra monologhi e canzoni, ma il tema della migrazione si ripete come un mantra forse nel solo modo che ogni siciliano ha già sentito e il solo con cui sappia riconoscerlo. E riconoscersi. Ma l’arte è conflitto, non è adesione che si cerca, è dinamismo mentale ed emotivo. La retorica della patria perduta, del dolore stereotipato della lontananza, da Penelope a Didone, dai clandestini di ieri a quelli di oggi, dall’America ai minatori sepolti nelle miniere d’Europa, non ha superato il nuovo millennio e si assesta con una staticità incolore nel dibattito culturale. È ancora di questo che un siciliano ha bisogno? Di annuire?
SabirFest ha dunque un territorio ricettivo, dove scarse sono le attività culturali, ma dovrà indirizzare meglio le proprie energie, dotarsi di un’organizzazione più nutrita per sostenere ognuno degli appuntamenti, intensificare le attività di promozione anche oltre quella “porta della Sicilia” che è Messina, magari oltre il famoso Stretto che lega e insieme separa l’isola dal territorio continentale; perché non è un ponte quello da realizzare, i ponti ci sono tutti e aspettano solo di essere percorsi, però certo trovare una lingua che davvero parli a tutti, che sia comprensibile di qua e di là dall’acqua, un vero Sabir, sarebbe necessario, almeno per vincere quella sensazione silente che la Sicilia stia continuando a parlare con sé stessa.
Simone Nebbia
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