Nella sede del Laboratorio Teatrale Integrato “Piero Gabrielli” e de “La Piccola Compagnia” con Roberto Gandini.
Durante una conferenza stampa di Luigi Squarzina, mentre l’assessore alle politiche sociali regalava degli abbonamenti per persone handicappate (termine elegante per l’epoca), Piero Gabrielli – nazionale di rugby degli anni Sessanta, fondatore dell’Associazione Mille Ragazzini in via Margutta, ristoratore e intellettuale per la rivista letteraria Il caffè – prese la parola e disse: «Tanto per cambiare questi guardano, non fanno». Squarzina dopo la conferenza lo fece chiamare e Gabrielli azzardò: «Perché non gli facciamo fare teatro?».
Il Laboratorio Teatrale Piero Gabrielli e la ricerca de La Piccola Compagnia oggi sono una realtà promossa dal Teatro di Roma, dall’Assessorato alle Politiche Sociali di Roma e dall’Ufficio Scolastico Regionale. Eppure finisco quasi per caso tra le cornici del loro spettacolo Il Purgatorio al Teatro India mosso dalla curiosità di vedere il lavoro di una compagnia «integrata» con ragazzi disabili e non. L’impatto artistico e umano è forte. L’energia degli interpreti in scena è quasi anacronistica, l’uso del simbolico pertinente, la grammatica equilibrata, la scenografia funzionale; cerco il regista, Roberto Gandini, e dopo una settimana sono seduto nella loro sede a Trastevere a bere un caffè con lui.
Qual è stato il percorso che ti ha portato a iniziare l’esperienza al Piero Gabrielli?
Il progetto di Piero Gabrielli era stato sospeso all’epoca della DC durante un periodo un po’ cupo per la nostra città. Fu ripreso poi nel 1995 con la giunta Rutelli, direttore artistico Luca Ronconi, e me lo affidarono. Quando me lo proposero non ero molto entusiasta ma chiaramente non lo dicevo perché per me era un’occasione di lavoro. Allora ho cercato di fare la miglior cosa possibile dal punto di vista teatrale e in questo sforzo disperato ho trovato una soddisfazione e un ritorno micidiale; avevo già fatto esperienze di un certo livello ma la pienezza di quel debutto con Sogno di una notte di mezza estate non me l’aveva data nessuno e questo mi ha segnato.
In un momento in cui nel teatro la parola crisi è vista come economica e di gestione, voi continuate invece a lavorare sulla crisi legata all’esistenza. Colpisce come l’interdipendenza con le istituzioni che stanno dietro quest’esperienza continui a resistere nel tempo.
Sapendo quanto fosse labile la memoria politica, le persone che hanno sostenuto il progetto hanno stretto un protocollo di intesa con le istituzioni; poi negli anni i vari assessori si sono fatti convincere dai risultati, al di là di tutto. Quest’esperienza è stata un po’ amata e un po’ odiata; Lavia osservava ironicamente che era l’unica forma di continuità artistica che il Teatro di Roma avesse avuto negli anni. Ed è vero. Dal 1995 questo progetto gode di continuità, anche perché non intacchiamo il bilancio del teatro.
Alle volte il teatro sociale paga il suo essere strumento di integrazione e crescita con un linguaggio artistico diluito. Il Purgatorio colpisce per la sua identità trasversale di arte e integrazione. Tu pensi di fare teatro sociale?
Io penso di fare teatro. Il grande merito di Maria Irene Sarti, la neuropsichiatra infantile che collabora con il gruppo, è quello di non aver voluto far diventare la parte riabilitativo-medica protagonista. Chiaramente ci sono degli effetti terapeutici enormi ma noi non li perseguiamo direttamente. Come da sempre il teatro fa bene, ti fa guarire, però non è che puoi somministrare quattro ore di prova dopo i pasti. Irene ha saputo fare questo, mantenendo lontana questa nuova religione che è l’arte terapia di cui io un po’ diffido perché ho sempre paura che un cattivo artista o un cattivo terapeuta vi si possa nascondere dietro. Poi ci sono dei bravissimi terapeuti che usano l’arte come il contrario.
Attraverso a quale formazione sei passato per confrontarti con questa realtà?
Lo studio alla scuola di Genova, le basi di danza, il lavoro con Peter Stein, con Carlo Cecchi, il fare due anni di circo con il musical Barnum di Massimo Ranieri durante il quale ho imparato in maniera “laica” il lavoro sul fisico, senza caricarlo di una misticità eccessiva. Ma le esperienze più formative sono forse state per me quelle più atipiche, come il ballerino di night club, o il teatro di strada. Dopo la scuola di infermiere professionale a diciassette anni ho cominciato subito a lavorare occupandomi degli altri, del fisico sofferente, vincendo le paure, gli schifi; questo è valso più di qualsiasi accademia.
In tutto questo come riesci a far leva sul disagio, come lo tratti?
Lo tratto costantemente ma è come se non lo trattassi mai. Cerco di creare per i ragazzi e per me un’occasione importante, una sfida difficile, in cui se ognuno non contribuisce non riusciremo a vincerla. E questo diventa il collante. Per cui quando io ti chiedo quello che secondo me mi puoi dare, capisci che il tuo contributo è indispensabile e non finto e quindi ti senti guardato non come un disabile ma come un interprete. Poi chiaramente bisogna gestire il gruppo e lì la domanda è: su che parametro ci possiamo uniformare, calmare i nostri ego strabordanti? Possiamo farlo solo sull’efficienza del raccontare meglio una storia. Solo questo può essere accettato come fine ultimo perché è democratico e verificabile. Nel teatro che facciamo noi non c’è mai immedesimazione, ci sono gli artifici che fanno funzionare una narrazione e quelli che invece ti portano fuori. Uno dei tormentoni durante i laboratori è: volete che vengano qui a dirci che va bene comunque perché siamo un gruppo integrato? No, noi vogliamo essere valutati in quanto regista e attori, punto. Non perché invalidi o normodotati. Consapevoli ovviamente della realtà che qualcuno verrà a vedere i disabili ma poi magari non riuscirà a distinguerli!
Qual è oggi il purgatorio per Roberto Gandini?
Per me è il Pronto Soccorso, è il carcere minorile, quella realtà che ti costringe a diventare migliore e il miglioramento, ahinoi, non può che passare per la fatica, per l’impegno. Questo l’ho ritrovato anche in Gurdjieff e Peter Brook, la qualità come entità quasi meta-religiosa, il senso che ti dà la ricerca della qualità togliendo, scavando e arrivando a una certa forma che è la migliore che tu riesca a esprimere. Io non penso di raggiungerla, ma è uno dei temi ai quali mi ispiro quando devo iniziare un lavoro e trovare l’energia per coinvolgere gli altri: mi carico di materiali, di informazioni, per poi essere qualcuno che avvia un processo di qualità, una fatica.
Il caffè è finito da tempo, fuori dalle finestre Trastevere ha acceso i suoi lampioni. Sulla porta esito un attimo, so che lì fuori mi aspetta il purgatorio, una realtà che ci costringe a diventare migliori, allora chiedo a Roberto Gandini se è religioso e mi risponde con un verso di Giorgio Caproni: «Prego non perché Dio esiste, ma perché Dio esista». La preghiera laica di Gandini non è questua ma creazione; come lui dice il teatro può essere proprio questo, creazione, specialmente se chi lo vive può reinventarlo e non limitarsi a ripeterlo come un qualcosa che gli passa qualcun altro.
Il Purgatorio sarà in scena il 4 gennaio 2016 a Roma al Teatro Argentina
Luca Lòtano
Twitter @Luca_Lotano
visto al Teatro India – ottobre 2015
IL PURGATORIO
tratto dalla Divina Commedia di Dante Alighieri
adattamento Attilio Marangon
regia Roberto Gandini
con gli interpreti della Piccola Compagnia del Piero Gabrielli
Il progetto è promosso e sostenuto da Roma Capitale- Assessorato alle Politiche Sociali, Salute, Casa ed Emergenza Abitativa, Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio e Teatro di Roma
Produzione Teatro di Roma