Naufragi e vocazioni organizzato dal Teatro Argot Studio al Teatro di Villa Torlonia. Resoconto.
Esattamente due anni fa ci si era ritrovati al Teatro Mancinelli di Orvieto per il secondo incontro di Naufragi e Vocazioni per interrogarsi sull’esistenza o meno di una «grammatica teatrale in grado di mettere in relazione tempi e luoghi differenti», qualcosa che si presentasse agli occhi del pubblico (soprattutto quello dei giovani) andando oltre la semplice ricerca di “innovazione”. Era dunque stato innanzitutto un incontro sulle poetiche. Oggi, con il patrocinio di Roma Capitale al Teatro di Villa Torlonia di Roma lo stesso progetto prosegue in un convegno, andando però a mettere in discussione le possibilità sistemiche di quegli interrogativi.
La giornata si è aperta con la proiezione di un ricco documentario, Il tesoro di Edimburgo, incentrato sul Fringe Festival, realizzato da Maurizio Panici e da Franco Scaglia (scomparso solo qualche mese fa). Con la voce narrante di Mascia Musy, il film percorre le strade della capitale scozzese nel pieno del fermento festivaliero, alternando interviste agli artisti a una conversazione con Richard Demarco, uno dei fondatori dello storico Traverse Theatre. La presentazione di Tiziano Panici – direttore del Teatro Argot Studio insieme a Francesco Frangipane – ha evidenziato come il Fringe rappresenti un’intera comunità di artisti e spettatori, unita attorno a una fondamentale, stretta (anche perché annosa) collaborazione con le istituzioni. «La cultura è quello con cui si compone l’identità di un popolo», definisce Panici, che riassume al meglio l’idea stessa di un documento sul Fringe non tanto come modello da imitare, ma come opportunità etica per «trasformare una città attraverso l’arte». La domanda che introduce gli interventi è «perché Roma non sia riuscita a creare comunità, intesa come società a cui un territorio artisticamente appartiene».
Si tratta di temi urgenti, con cui si confronta chiunque tenti di fare o guardare arte in questa città e in questo paese. La continuità di certi spazi – l’Argot Studio è uno di questi – e l’opportunità per essi di proiettare su prospettive di lungo termine una visione del futuro culturale è dipesa da una continua lotta con leggi capestro e circolari ministeriali. La forza deriva, secondo Maurizio Panici, dalla capacità di immaginare un futuro, da quelle «epifanie» che mettono direttamente in crisi la relazione con se stessi e il proprio lavoro, come dire la propria identità.
Il direttore del Teatro di Roma Antonio Calbi è intervenuto sottolineando come il dovere del teatro in quanto «una delle arti più vive sia di interrogarsi sul proprio rapporto con territorio, società e comunità». Secondo Calbi Roma «soffre di una malattia ancora non identificata. Non ha una convenzione con un teatro. Eppure gli artisti del teatro sono il termometro più sensibile di un’intera società. Che duri poco o tanto il teatro deve creare qualcosa. Altrimenti resta una scenografia senza contenuto». Su queste parole, nella nostra mente, si è innestata la visione di una città di certo frammentata, ma che dimostra nelle proprie declinazioni più indipendenti, in costante emergenza, la forza di inventiva e di invenzione. Senza che dal teatro pubblico arrivi, in maniera sostanziale, una proposta di reale interazione. Come si è discusso a lungo in queste settimane, la «fortezza vuota» (che tornerà anche alla fine di questa pagina) andrebbe riempita innanzitutto di strategie non di comodo né di lustro, ma di reale risposta alle esigenze della società teatrale. Una società che si dimostra viva, ma non più in possesso di legami con le gestioni sistemiche di un’offerta culturale realmente aderente al tessuto interpretativo e politico degli spettatori. In questa direzione va anche la riflessione di Viviana Gravano, che si richiama a Giorgio Agamben e alla sua «comunità che viene, che si autocostituisce quando l’evento lo richiede».
La seconda parte del convegno giunge ad affrontare le questioni nodali finalizzate a potersi organizzare in tempo di crisi, o meglio, di naufragi. Prendendo la parola il Prof. Guido Di Palma, docente di storia del teatro e drammaturgia a Sapienza Università di Roma, apre al confronto individuando sin da subito un contesto di riferimento all’interno del quale ci si domanda se il cosiddetto “teatro d’arte” sia ancora in grado di mantenere una propria identità estraniandosi dalla logica aziendale. Presupposto necessario sarebbe dunque la costruzione di un linguaggio autonomo in grado di tenere legati insieme interlocutori diversi come le università, il Comune e quindi la città, e lo Stato, avendo chiara la prerogativa «A quale pubblico ci rivolgiamo?». La Prof.ssa Viviana Gravano, docente di arti visive all’Università degli studi L’Orientale di Napoli, prosegue sottolineando il rapporto teoria-pratica, dove le pratiche superano nettamente le distinzioni teoriche attestando la multidisciplinarietà. Alla base, continua la docente, «vi è un problematica fortemente politica che non permette a qualsiasi vocazione comunitaria di fare rete e di relazionarsi con il territorio».
Se parliamo di territorio non possiamo non pensare all’azione svolta da due realtà romane come quelle di Teatri di Vetro e Attraversamenti Multipli. Roberta Nicolai, direttrice artistica di Teatri di Vetro giunto quest’anno alla nona edizione, ricorda come sin dal primo anno l’invito pubblico sia stato determinante, tanto per tenere in considerazione il panorama artistico romano quanto soprattutto per legare insieme spazi e luoghi (ricordiamo che il festival nasce nel e per il quartiere romano Garbatella) in un dialogo costante e necessario col contesto nazionale. L’esperienza di Alessandra Ferraro con Attraversamenti Multipli, che quest’anno festeggia quindici anni all’insegna del «meticciato artistico», possiede una natura diversa e specifica in quanto basata principalmente sul carattere nomade della proposta artistica lavorando in «non luoghi» con un «non pubblico» in un orizzonte di «pericolo» dato dalla casualità. Come si fa quindi a far capire alle istituzioni il lavoro svolto col pubblico se esso non è pagante? Altra iniziativa coraggiosa e di apertura al territorio è quella raccontataci da Massimo Carosi di Danza Urbana, festival che ha incontrato il favore della città di Bologna la quale ha sostenuto l’idea e la testardaggine di proporre spettacoli fuori dagli spazi teatrali che, come nel caso romano di Attraversamenti, hanno trovato il consenso e la partecipazione di migliaia di spettatori non paganti. Si è parlato molto di formazione di una comunità nell’intervento di Gianluca Cheli relativo a Kilowatt Festival diretto da Luca Ricci e del progetto Visionari, i quali hanno risolto la mancanza di interlocuzione con la comunità di Sansepolcro attraverso un vero e proprio «servizio sociale» in grado di affrontare l’inadeguatezza di fondo delle istituzioni e abbattendo una barriera di ignoranza e di menefreghismo. Stessi impedimenti incontrati da Alessandro Cattunar e Laura Richelli che ci hanno parlato di In/visible Cities Urban Multimedia Festival. Lavorando nelle città di Gorizia e Nuova Gorizia (Slovenia), i due direttori hanno costruito da zero una comunità di spettatori in due territori provinciali e di confine grazie anche alla difficile ma stimolante sinergia avuta coi partner stranieri. L’ intervento dell’attore Ippolito Chiarello e del suo progetto Barbonaggio Teatrale ribadisce il ruolo fondamentale degli spettatori affermando però di ritenere indispensabile il pagamento della prestazione attoriale sia per la comprensione che per la valutazione del mestiere di attore. Discorso poi approfondito da Francesca D’Ippolito con riferimento all’esperienza di Teatri Abitati che ha trovato nel coinvolgimento del pubblico il volano per affrontare «i grandissimi naufragi» che colpiscono oggi la realtà pugliese. «Funzionalità» è la parola chiave scelta invece da Luca Mazzone del Teatro Libero di Palermo il quale, dopo aver spiegato la sua esperienza al Festival di Edimburgo nell’equipe organizzativa del Teatro Aurora Nova Venus del Fringe, riporta l’attenzione sulle diverse e necessarie modalità di fare sistema al fine di inscriversi all’interno di un territorio che non deve essere frammentato ma unito dalla funzione che il teatro possiede al suo interno. Il dibattito si è acceso nel finale con Francesca Garolla, autrice e dramaturg presso il Teatro I di Milano, che parlando del contesto meneghino ha sottolineato «sì esiste un sistema ma è calato dall’alto» e comporta dei parametri da rispettare; Garolla ha inoltre aggiunto che a suo parere la parola “vocazione” «esclude la volontà di azione impedendo una comunicazione che sia realmente produttiva». Pensiero che si è scontrato con quello di Maurizio Panici per il quale la vocazione non deve affatto spaventare o essere sinonimo d’impotenza poiché costituisce «l’unica forza alla quale il territorio deve fare appello» dove il naufragio rappresenta una momentanea e proficua deviazione che fa della difficoltà la forza per ricrearsi, e dello sbandamento una possibilità.
Concludendo l’excursus riguardo questa giornata, citiamo una domanda provocatoria di Paolo Ruffini che invita a riconsiderare non solo gli interventi fin qui citati ma anche la visione complessiva del fare teatro oggi, strettamente legata al dibattito relativo a La Fortezza vuota: «La società contemporanea ha bisogno di quello che fate?». Rispondendo in base al contesto relativo alla critica, possiamo affermare che nostro compito è la divulgazione chiara e trasparente di tale resoconto che ci auspichiamo possa raggiungere più lettori possibile. Al fine di allargare la comunità e la riflessione, proponiamo per il prossimo incontro una call indetta da ciascun operatore per richiedere la partecipazione di un gruppo di spettatori dei diversi festival intenzionato a proporre suggerimenti e ribadire bisogni.
Sergio Lo Gatto/Lucia Medri
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