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Martin Zimmermann e Letizia Renzini. Frammenti di corpo

Martin Zimmermann e Letizia Renzini.Una danza con molte analogie per Contemporanea Festival 2015

 

Martin Zimmermann
Hallo – Foto Augustin Rebetez

È uno sguardo crudele e violento, quello dello spettatore: un’ostinata e instancabile dissezione del corpo dell’artista, alla ricerca di una verità che esondi da esso e che nutra quell’inarrestabile fame di senso percepita come legittima, addirittura coessenziale al teatro. Sottrarsi alla vista onnipervasiva del pubblico o nascondersi da esso sembra così costituire una vigliacca rinuncia al proprio compito: eppure a Contemporanea Festival, diretto da Edoardo Donatini che anche quest’anno ha condotto a Prato riconosciuti maestri ed emergenti realtà nazionali e internazionali, due spettacoli distanti per forme e linguaggio hanno tuttavia condiviso un’estetica del mimetismo che, nello sfidare convenzioni e aspettative, sembra determinare cortocircuiti estetici e politici.

Hallo, presentato al Teatro Fabbricone in apertura del festival, è un surreale e divertito assolo creato e interpretato dallo svizzero Martin Zimmermann, nel quale i meccanismi tipici del mimo e della clownerie lasciano spazio a malinconiche riflessioni su un destino, imprescindibile e volontario, di sacrificio verso l’osservazione altrui. Timido e spaventato, Zimmermann – leggings neri attillati sulle magrissime gambe, maglietta bianca slabbrata e bucata – sembra quasi catapultato da una volontà minacciosa davanti alle centinaia di occhi che lo scrutano, in attesa di quelle gag delle quali è lui stesso vittima inconsapevole. È il rumore delle scarpe di pelle sul palcoscenico, effetto naturale di quei passi strascicati e indecisi con cui si mostra alla platea, a terrorizzarlo al punto da costringerlo a cercare rifugio e protezione, da se stesso e da quelle risate che lo colpiscono violentemente. Un impermeabile, stampato nella stessa fantasia color legno che contraddistingue i pannelli posti sul fondale, può così diventare uno scudo con cui celarsi alla vista, e il cubo che domina il centro della semplicissima scena può rivelarsi una scatola in cui nascondersi, come un bambino che sfugga a un pericolo immaginario. E tuttavia non soltanto la percezione visiva insidia l’artista svizzero, ma anche lo spazio scenico, che muta a un ritmo talmente vertiginoso da eludere qualsiasi apparente controllo. Zimmermann – creatore della sapiente macchina scenografica insieme a Ingo Groher – è costretto a fronteggiare i repentini cambiamenti, ad adattarsi con plasticità alle botole che si aprono improvvise e dalle quali fuoriescono luciferine risate, o ai pannelli che cadono a terra aprendo nuovi varchi di labirintica variabilità. È l’allestimento a dettare i ritmi e le torsioni drammaturgiche, a costringere il performer a un inseguimento fisico e narrativo: la muta gestualità plasma così una partitura che sembra rispondere alle improvvise mutazioni dello spazio, più che dialogare con esse. Zimmermann entra ed esce dalla visuale dello spettatore, instaura con un manichino – quasi un alter ego – un balletto giocoso, cita nella scenografia il suprematismo di Malevič: a sottolineare come sia proprio la riflessione sullo sguardo e sugli inganni che esso spesso comporta il collante tra i vari sketch. L’ostensione del corpo è, in questo universo anamorfico, un fatto al quale arrendersi nonostante gli sforzi profusi nel rifiutarla; solo, costretto a muoversi in un gigantesco trompe-l’oeil nel quale anche gli oggetti dall’aspetto rassicurante – tra i quali una bombetta di magrittiana memoria – mascherano una consistenza materica ben diversa da quella percepibile a prima vista, l’attore ingaggia un duello contro la mutevolezza della realtà, forse addirittura contro il pubblico stesso che sorride trasognato. La vittoria consisterà nel dominare la scena, nel sovrastarla al punto da poter danzare con essa. È una coreografia di straordinaria dolcezza, accompagnata dai suoni di Colin Vallon e Andy Neresheimer, quella che ha luogo sul palco del Teatro Fabbricone, esito di un’accettazione quasi sofferta della fluidità del reale. La ritrovata capacità di sostenere lo sguardo dello spettatore è, di questo conflitto, un naturale climax: troneggiando su una scena in continuo movimento, sopravvissuto a una battaglia che lascia sul palco fondali distrutti e cocci di terracotta, l’artista può adesso anche deriderci in uno spassoso grammelot, e affrontare con coraggio quell’oscura risata che soltanto poco tempo prima incuteva orrore.

Letizia Renzini
A drum is a woman – Foto Ilaria Costanzo

La frammentazione continua dello sguardo e la negazione di una qualsiasi visione diretta e unidirezionale del corpo dell’artista assurgono a tema centrale nella sorprendente creazione di Letizia Renzini e Marina Giovannini, A Drum is a Woman, presentata come primo passo. All’interno della rassegna Time to Move, frutto della collaborazione tra Contemporanea e il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci e che ha visto susseguirsi un numero forse fin troppo alto di coreografie di alcune delle più importanti compagnie italiane, la performance di Marina Giovannini ha stupito per originalità e ampiezza di implicazioni filosofiche e politiche. Statuaria e al contempo trasparente, coperta soltanto dagli slip, Giovannini accoglie il pubblico mentre è ancora intenta a tingersi il corpo con un pigmento scuro. Ciò a cui assistiamo non è soltanto una meticolosa preparazione del trucco di scena, ma la chiave di volta di una stratificata operazione che trasfigura quel singolo corpo in un oggetto estetico e in un soggetto politico. Se infatti in prima istanza Renzini e Giovannini fanno propria l’eredità della body art e trasformano così l’artista da medium espressivo a opera d’arte da contemplare nella sua carnalità, il gesto stesso di tingersi la pelle di nero realizza a tutti gli effetti un atto politico, la spiazzante decostruzione di uno sguardo supinamente e inconsciamente “bianco” e “occidentale”. Inserito in un progetto dedicato agli Slavery Tales e inaugurato nel 2008 dalla performance Dei Secoli incentrata sull’apartheid, A Drum is a Woman è capace di portare alla luce quelle invisibili commistioni tra razza, sesso e rappresentazione artistica sulle quali più di dieci anni fa la teorica femminista afroamericana bell hooks rifletteva in Elogio del margine. Non più donna bianca, Giovannini sembra tatuare sul proprio corpo una storia – quella delle donne nere – di invisibilità; lei stessa si rende invisibile occultandosi dietro una lamina di plexiglass illuminata da led colorati sullo spessore. Ciò che vediamo sono soltanto le tracce, le macchie lasciate dalla tinta sulla superficie resa opaca dal fascio di luce; muovendosi con lentissima e ipnotica grazia, appoggiandosi e aggrappandosi alla lastra, Giovannini dipinge una mappa di zone d’ombra in costante modificazione, una trama di aloni che la rende manifesta proprio nella negazione allo sguardo conclamato. L’ombra che la danzatrice proietta sul muro alle sue spalle amplifica ulteriormente la deflagrazione delle prospettive, molteplici e tuttavia mai dirette al corpo vivo dell’artista: quasi che anche in un’assenza significante esso possa mostrarsi.
È questo tentativo di sopravvivenza alla ferocia di una costante esposizione a poter dischiudere significati inconsueti e a disseminare veridici indizi.

Alessandro Iachino
Twitter @Aleiachino

visti al Teatro Fabbricone e al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Settembre, Contemporanea Festival 2015

HALLO
progetto, direzione, scenografia,coreografia e performance Martin Zimmermann
drammaturgo Sabine Geistlich
sviluppo-scenografia, direttore tecnico del progetto Ingo Groher
creazione del suono Colin Vallon
direzione e assistente coreografo Eugénie Rebetez
costumista Franziska Born
disegno luci Sammy Marchina
disegno del suono Andy Neresheimer
creazione-stage manager Roger Studer
creazione-stage direction Sarah Büchel
produzione Verein Zimmermann & de Perrot

A DRUM IS A WOMAN – primo passo
ideazione, creazione, regia, suono Letizia Renzini
creazione, coreografia, interpretazione Marina Giovannini
realizzazione lastra Matteo Menduni
programmazione software Riccardo Canalicchio
produzione tecnica Avuelle
amministrazione Cab 008
residenza creativa CanGo Cantieri Goldonetta
organizzazione e produzione Luisa Zuffo
tecnica Eva Sgrò, Marco Santambrogio
photo @luciano rignanese

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Alessandro Iachino
Alessandro Iachino
Alessandro Iachino dopo la maturità scientifica si laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Firenze. Dal 2007 lavora stabilmente per fondazioni lirico-sinfoniche e centri di produzione teatrale, occupandosi di promozione e comunicazione. Nel novembre 2014 partecipa al workshop di visione e scrittura critica TeatroeCriticaLAB tenuto da Simone Nebbia e Andrea Pocosgnich nell’ambito della IX edizione di ZOOM Festival, al termine del quale inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica. Ha partecipato inoltre al laboratorio Social Media Strategies for Drama Review, diretto da Andrea Porcheddu e Anna Pérez Pagès per Biennale College ‑ Teatro 2015, e ha collaborato con Roberta Ferraresi alla conduzione del workshop di critica della Biennale College ‑ Teatro 2017. È stato membro della commissione di esperti del progetto (In)Generazione promosso da Fondazione Fabbrica Europa, ed è tutor del progetto Casateatro a cura di Murmuris e Unicoop Firenze.

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