L’amara sorte di Claudio Morganti riportato in scena dopo dieci anni al Contemporanea Festival di Prato
C’è un unico filo di quella che fu una ragnatela, cala dall’alto di una piccola rupe nascosta, il posto fatto luogo di un rito da officiare. Il filo è sottile, quasi non visto, stilizzato dai fari che dal basso puntano il soffitto a volta, sbrecciato, come fosse il copricapo sacerdotale per quell’uomo in piedi, appena sotto il filamento cadente. Claudio Morganti, all’inizio di quella che si presenta come una fine, ma che invece inesauribile replica in eterno l’atto del finire, non conclude, ammette semmai alla conclusione la parzialità in cui coinvolge gli uomini e, forse, la loro vita. Mai, la vita universale. Ammesso tuttavia che la vita esista davvero e non sia invece altro che una memoria riposta in una scatola numerata, voce nostra divenuta nel tempo il nastro registrato di una voce altrui, cui riconosciamo una sequenza, una preordinazione, ma la cui risonanza attuale confonde il tempo di prima nel presente, lo mescola, denuncia, non concludendo sé stesso, la nostra muta finitudine.
Un profumo si espande nella sala, la ritualità dell’incontro è il raffinato uso di Morganti all’accoglienza; se ne coglie sincerità, è la rottura di un confine a volte in sé rassicurante, concetto dello spettacolo – la rassicurazione – cui l’artista ha scelto di non appartenere. Ci sarà un tavolo con le vivande, se vogliamo, prima o dopo, non durante, perché durante le luci saranno basse e non si staccherà lo sguardo da L’amara sorte, lavoro che dopo dieci anni l’artista riporta in una scena minuta, segreta, capace di una vibrazione che di diritto ascriviamo a drammaturgia (lo stesso luogo, sotto al Teatro Magnolfi di Prato dove si svolge Contemporanea Festival 2015, in cui già fu uno degli spettacoli più belli di questi anni, Mit Lenz, del 2013, nonché il successivo Recita per l’attore Vecchiatto). E se per L’amara sorte del servo Gigi l’idea fu allora quella di adagiare un testo – definito – di servizio su L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, quella modifica di elementi scenici e parole conservava il tema possente della riproduzione esistenziale, la relazione tra uomo e tempo, lo stato dell’arte che, forse, è il tentativo umano di resistere alla deperibilità attraverso la registrazione della voce del passato, da riascoltare nel presente (il futuro di allora). Ora altro tempo è passato, questa sorte amara non è più di un servo Gigi qualsiasi, è davvero e intimamente di Claudio Morganti, come si legge quasi per caso tra i crediti dello spettacolo. Suggestione? Chissà, eppure è davvero questa la missione che l’artista ha così ben inteso per la propria opera, considerare sé stesso all’interno della corruttibilità che il tempo dispone sull’uomo. Non finito, il tempo, che scorre nel finito, uomo.
Il teatro, dice in apertura, è «il gioco di un esperimento scientifico». Ma è come dire, dunque, che si tratti dell’esperimento di un esperimento, riproduzione continua di una mancanza, di un’assenza irredimibile. E allora è solo sciogliendo i capelli e cambiando le scarpe, mettendo un cappello in testa e modificando lievemente la postura in una posa di vecchiezza, che egli può, non cominciare ma, dire: «Adesso comincio». Questa presa d’atto è presa di responsabilità dell’opera, il gioco dell’esperimento è serio, ogni gesto sarà compresso in un’intenzione che nessuno può più ignorare: si parla di morte, si parla di fine, si farà con i mezzi permessi all’uomo per affaticarne una definizione. Parole sostitute di altre parole, poco importa. Le parole sono illusione, contano come ritmo, suono, azione e incensurata malia.
C’è una parete alle spalle fatta di mattoni a vista, poi libri accatastati. Come fossero mattoni. Di cosa? Di un’esistenza registrata, testimoniata a sé stessi passo per passo, appuntamenti transitori come transitorio è chi li osserva. Morganti in movimenti poveri e scanditi dalla dissoluzione, dall’invecchiamento, misura la domanda fondante del Krapp e la rivolta al tempo presente: quale il rapporto tra il deterioramento della voce e quello del nastro? Dell’uomo e della sua memoria? Eppure, in un teatro che suppone il vivo apparire di un uomo a cospetto del divenire, per afflato e per incanto il tempo pare fermarsi in uno spazio. Conchiudere in un uomo – l’artista – un’illusione d’eternità.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Teatro Magnolfi, Prato. Contemporanea Festival 2015 – Ottobre 2015
L’AMARA SORTE
di/by Claudio Morganti
con l’assistenza tecnica di/with the technical assistance of Rita Frongia