QUINTA DI COPERTINA. La possibilità del teatro è il primo di quattro volumi che contengono la raccolta integrale degli scritti di Jerzy Grotowski dal 1954 al 1998
Con colpevole ritardo diamo conto di un progetto editoriale di grande respiro, la pubblicazione integrale degli scritti di Jerzy Grotowski, frutto di una collaborazione tra Fondazione Pontedera Teatro e La casa Usher. L’edizione polacca del 2013 è diversa da quella italiana, che invece si divide in quattro volumi. E bisogna metterli tutti e quattro uno accanto all’altro, per capire l’importanza e l’influenza del pensiero di questo grande uomo di teatro sul teatro che stiamo vedendo e vivendo, oggi, qui in Italia, qui in Europa e probabilmente qui in Occidente.
Lì dentro non c’è solo tutta l’attività pubblicistica del regista, c’è tutto il respiro di un teatro che, rinascendo, consapevolmente sapeva di avviarsi già alla morte, una teoria che è innanzitutto atto di fede, analisi delle opportunità, militanza condotta giorno per giorno all’interno di un tessuto culturale, mettendo in atto lo sforzo di allargarne le maglie.
Queste righe riguardano il primo volume, che con il titolo La possibilità del teatro sembra fare i conti con le stesse domande aperte poste da Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini nell’intervento La fortezza vuota. Quest’ultimo è sottotitolato con Discorso sulla perdita di senso del teatro, mentre la collezione di studi di Grotowski sembra un inno alle opportunità, soprattutto grazie alla rigorosa scansione cronologica offerta dalla curatrice e traduttrice Carla Pollastrelli (già parte dell’equipe dell’edizione polacca e qui affiancata da Mario Biagini e Thomas Richards).
In Morte e resurrezione del teatro viene analizzato il ruolo culturale del teatro, stretto tra un paradossale «contemporaneo anacronistico» e una funzione artistica duplicata dal cinema e dalla TV, per questi inarrivabile e consistente nell’«attore vivo, viva personalità umana» e la «nuova messinscena» che li sfrutta. Il tutto consegnato a un pubblico che, al di là di ogni «fideismo», vorrebbe soddisfare «il bisogno di un’arte i cui elementi distintivi siano la circolazione del pensiero, il confronto di attitudini intellettuali, il dialogo diretto tra fruitori e artisti».
Il primo volume è anche una sorta di “ritratto dell’artista da giovane”, i testi contenuti (pubblicati tra il 1954 e il 1964 e finora inediti in Italia) sono brevi e appuntiti interventi che difendono le ragioni di un risveglio artistico, certo, ma sopratutto politico. O meglio, un risveglio politico pianificato attraverso una coscienza artistica. E allora quanto suona rivoluzionaria una frase con cui si apre La concretezza dell’ispirazione, 1955: «Sono profondamente convinto che un’opera pienamente artistica non possa venire alla luce se l’artista non rispetta nel suo intimo quello che lo distingue dai non-artisti. Quel fattore – quella fiamma incendiaria che scende sulla nostra mente, sul nostro corpo, sui nostri nervi – è la famigerata, vecchia ispirazione».
Non è un caso che ad aprire la raccolta sia una diligente spiegazione de Il testamento artistico di K.S. Stanislavskij (1954), che indugia sulla confluenza di tutti gli atti «in una sola azione trasversale che mira a un supercompito», seguito non troppe pagine dopo da un saggio pubblicato in Dziennik Polski nel settembre ’56, in cui racconta Quali cambiamenti ho osservato nella vita culturale dell’Unione Sovietica o il severo Discorso al Comitato Centrale Provvisorio dell’Unione della Gioventù Socialista, 1957. Chiude questo intervento la frase: «La politica è scelta tra un male e un male minore, ma i compromessi sono ammissibili e necessari se non interferiscono con i principi».
E di principi e di compromessi si occupano gli stralci più significativi, come Il teatro dei grandi sentimenti e Il teatro che sogniamo (1955). In questa sorta di invocazioni al futuro c’è di certo traccia dell’ideologia sovietica, il tono è quello delle sedute plenarie di partito, ma emerge da sotto un’intimità della ragione che è ciò che porterà Grotowski a denudare, della propria arte, la coscienza ancor prima che il linguaggio. È una ragione che lo fa vedere lontano, che gli guida la mano a disegnare scenari identici a quelli in cui ci troviamo oggi, con sorprendente veggenza: «Il nucleo del problema sta nella mancanza di identità artistica dei nostri teatri. […] Si confonde il concetto di teoria artistica con la concezione del teatro. […] Il programma artistico […] deriva dai bisogni culturali della società e degli artisti che ne fanno parte».
Dentro questo volume c’è insomma pane per politici e critici militanti, ma anche per teorici e pratici dell’arte scenica. Le tracce di elaborazione di metodo sono innumerevoli e sembrano attraversare una porta spazio-temporale che giunge fino a noi. In A proposito del teatro futuro (1959) si legge: «Il ponte tra l’anacronistico teatro contemporaneo, il teatro come “arte del teatro” e il teatro del futuro sarà da un lato l’ulteriore deciso sviluppo della messinscena teatrale intellettuale, anti-naturalistica, impegnata nella riflessione filosofica, dall’altro, lo sviluppo di forme reciproche di contatto diretto tra la scena e la platea, la graduale metamorfosi dello spettacolo, che rimarrà sempre meno “rappresentazione” (della storia agli spettatori da parte degli attori), sempre più “dialogo” (tra scena e platea, naturalmente sul materiale dell’azione scenica)». Tutto questo nel 1959, anni prima della nascita, in un altro continente, della performance art.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
I. LA POSSIBILITÀ DEL TEATRO – Testi 1954-1998
Jerzy Grotowski
a cura di Carla Pollastrelli, Mario Biagini e Thomas Richards
traduzioni di Carla Pollastrelli
Firenze, La casa Usher, 2014
pp. 261
ISBN: 978-88-98811-06-9
Euro 20.00