Cristiana Morganti, storica danzatrice del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch, ripropone il suo Jessica and me al Teatro dell’Archivolto di Genova. Recensione
Su un palco buio l’unica cosa che vediamo è un corpo che si muove. Indossa pantaloni neri e una camicia blu, cammina lentamente verso il fondo. Sta sussurrando qualcosa: «No… Non la camminata sofferta, è ridicolo… Qui, qui va bene… Resta immobile… Ora cadi, soltanto cadi!». Il corpo va giù senza emettere suoni, poi la voluminosa capigliatura riccia e bruna si volta e mostra il volto di Cristiana Morganti. Il suo nome è noto a tutti come quello di uno dei membri storici della compagnia Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch, in giro per il mondo con un repertorio di capolavori universalmente acclamati e ora con la creazione (Neue Stücke) di un nuovo team internazionale di coreografi. I suoi tratti sono peculiari ed espressivi come quelli di ogni altro componente dello storico gruppo tedesco: nella sua figura lunga e segaligna, con il cespuglio di capelli in cima, riconosciamo anni e anni di lavoro sulla qualità della presenza, intrecciando biografia personale e abilità tecniche nell’incontro con la più indomabile creatività degli ultimi cinquant’anni di danza.
Coreografando e danzando Jessica and Me, Morganti compone una sorta di ironico e caustico blocco di appunti sulla propria vita come corpo-macchina. In uno spazio spoglio e quasi buio, evoluzioni diagonali, floorwork, improvvisi guizzi e momenti di freeze totale esplodono in una sorta di inventario di aneddoti e confessioni riguardo la lunga cittadinanza della danzatrice nell’impero di Bausch. Tuttavia la creazione di Morganti rilancia la ricerca, realizzando un affondo intimo a proposito dello “stato mentale di un corpo” e delle sue condizioni quando il vissuto personale si innesta in una coreografia già intensa per linee, forme ed energie.
Mentre danza – tenendo sul volto una ferrea maschera di concentrazione e rafforzando il movimento di una squisita disciplina – la voce dagli altoparlanti rivela il fermento del cuore e si interroga sul significato vero e proprio di questa o quella progressione, cercando di trarre un senso da un salto o il più profondo impulso emotivo di una sequenza di danza pura. Una tenace vena ironica funge da filo conduttore, porta Morganti a mettere in discussione le dichiarazioni che il pubblico legge nel programma di sala o la motivazione che si cela dietro a un pezzo di danza fondamentalmente semplice ma intrigante.
La riflessione ruota attorno al concetto di memoria e all’opportunità di fissare e contestualizzare un lavoro così unico come quello del Tanztheater Wuppertal, in un incontro intimo tra incarnazione e dislocazione. Nonostante una scena minimale, ciò che sopravvive dell’estetica bauschana è la struttura drammaturgica, un avvicendarsi di visioni oniriche e un approccio critico costante critico al loro senso potenziale come frammenti di coscienza del gesto.
Tale conflitto si concretizza, ad esempio, in un’esilarante intervista con un registratore audio: la voce della giornalista è quella della Morganti stessa e il tentativo è di ritrattare certi stereotipi su “Pina” e il suo metodo. Che è lì e, in qualche modo, non è lì, impastato entro un’innegabile qualità coreografica.
Intrecciando la storia privata di giovane danzatrice in Italia con i ricordi dei tour mondiali insieme alla compagnia, Morganti fa il verso a Pina fumando sigarette, interagisce con il pubblico, si prende gioco del proprio corpo che invecchia, o si lamenta di come le sia sempre stato chiesto di conservare il sorriso, anche nei passi più lirici e dolorosi. La danzatrice non manca di offrire una performance sorprendente, su una colonna sonora composta dai classici retrò del repertorio del Tanztheater in dialogo con frammenti di interviste e annunci alla sala.
Il risultato è un malinconico “ritratto dell’artista non-più-giovane” e del tempo che passa. Una potente scena finale in cui il lungo vestito da principessa si accende di fuoco digitale ci fa riflettere sul futuro dell’esperienza del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, che oggi si confronta con il significato stesso di perpetuare come un metodo il lavoro della grande coreografa tedesca, nato in origine proprio come un’opposizione al concetto convenzionale di tradizione.
Sergio Lo Gatto
Twitter: @silencio1982
*Questo articolo è apparso in lingua tedesca sul numero di Ottobre 2015 della rivista Tanz. Per gentile concessione.
Traduzione dall’originale inglese verso l’italiano a cura dell’autore.
Teatro dell’Archivolto, Genova, 22 e 23 ottobre 2015.
JESSICA AND ME
di e con Cristiana Morganti
collaborazione artistica Gloria Paris
consulenza musicale Kenji Takagi
disegno luci Laurent P. Berger
video Connie Prantera
produttore esecutivo il Funaro – Pistoia
in coproduzione con Fondazione I Teatri – Reggio Emilia