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Teatrosofia #23. Teofrasto, tra musica e tragedia

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento ci avviciniamo al peripatetico Teofrasto.

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

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Tempio di Minerva, incisione di William Miller

Sul solco del suo maestro Aristotele, a cui succedette come scolarca della scuola peripatetica, Teofrasto si interessò della tragedia e, stando alla testimonianza del grammatico Diomede, ne diede una densa definizione, di cui questa è la traduzione letterale: «La tragedia è una circostanza della fortuna eroica». Decodificandone gli elementi, possiamo provare a precisare il suo significato oscuro. Sappiamo che per Teofrasto la «fortuna» consiste negli accadimenti che l’uomo non riesce a calcolare (cioè, ad anticipare e prevenire), a causa della sua incapacità di riflettere correttamente sugli eventi. Inoltre, l’originale greco di «circostanza» è il termine peristasis, che può a volte indicare una situazione negativa, ossia un momento di grande crisi e di rischio. E infine, l’aggettivo “eroica” va semplicemente inteso con il significato di “propria di un eroe”, quindi dovrebbe indicare banalmente che un eroe è il soggetto protagonista di una tragedia. Alla luce di queste risonanze, si potrebbe allora ampliare la definizione di Teofrasto in tali termini: la tragedia è una circostanza critica di un eroe, che subisce dei danni da ciò che non è stato capace di anticipare e prevenire.

Per fare un esempio esplicativo, “tragica” in senso teofrasteo è la situazione di Giocasta che si impicca in casa, non appena scopre che l’uomo che ha sposato dopo Laio e con cui ha generato nuovi figli è suo figlio Edipo. L’esito in questione va considerato un evento “fortuito”, perché l’eroina non è stata razionalmente capace di riflettere su chi fosse davvero quell’uomo e quali conseguenze disastrose (la peste, il suo suicidio, ecc.) avrebbe scatenato giacendo con lui.
Come va intesa la portata filosofica ed estetica della definizione di Teofrasto? A uno sguardo superficiale, essa sembrerebbe essere meno complessa rispetto a quella presentata da Aristotele nella sua Poetica. Teofrasto si limita a dare una definizione “formale” della tragedia, senza precisare, come aveva fatto il suo maestro, che essa è anche una rappresentazione mimetica, dotata di diverse parti (tra cui la musica o la recitazione dell’attore) e che porta a una catarsi dello spettatore. Egli sembra dunque risultare insensibile agli elementi performativi del genere tragico e sviluppare, a partire da Aristotele che già considerava l’influenza della «fortuna» come uno degli elementi determinanti della caduta in disgrazia dell’eroe, una sua personale ma semplicistica variazione.

Ci sono tuttavia diversi aspetti che inducono a non correre a questa conclusione. I frammenti di / le testimonianze su Teofrasto ci fanno sapere che egli scrisse un trattato Sulla recitazione (a cui forse possono essere ricondotti alcune notizie che leggiamo nello pseudo-Demetrio, in Atanasio e in Cicerone), che si dedicò insieme al suo condiscepolo Aristosseno allo studio della musica e sugli effetti terapeutici che questa ha sull’ascoltatore, che ebbe uno spiccato interesse per l’udito, da lui considerato come «il più emotivo tra i sensi». Difficile è allora pensare che egli fosse insensibile agli elementi performativi, per cui sarebbe più sensato supporre che la definizione del filosofo tenga come ovvia la presenza nella tragedia di questi elementi che il suo maestro aveva lucidamente messo in evidenza. In altri termini, l’ipotesi che si propone è che il termine “tragedia” usato da Teofrasto riprenda il contenuto della definizione di Aristotele, aggiungendogli qualcosa in più. La sua sarebbe dunque una definizione nella definizione, che deve essere così perfezionata e integrata: “la tragedia è una rappresentazione mimetica e accompagnata da musica della circostanza critica di un eroe, che subisce dei danni da ciò che non è stato capace di anticipare e prevedere”.

Questa lettura trova riscontri indiretti in altre due testimonianze, che si completano a vicenda. La prima è costituita da un passo del Sui metri di Elio Festo Aftonio, che accenna al fatto che per Teofrasto il canto può assumere un «peso tragico». La seconda testimonianza che viene in soccorso è una sezione del primo libro delle Questioni conviviali di Plutarco. Qui, Sossio parte da un trattato del filosofo che individuava nel piacere, nel dolore e nell’esaltazione le tre “cause” della musica (infatti, queste tre emozioni alterano la voce e le danno un andamento melodico), per poi spiegarlo ricorrendo al caso dell’attore che recita cantando, quando è preda della sofferenza che avverte nel rappresentare una scena commovente – cioè tragica, poiché anche Teofrasto pensava, come ricorda sempre il grammatico Diomede, che la passione dominante nella tragedia è la tristezza. È vero che non tutto il contenuto del discorso del personaggio va ricondotto al trattato teofrasteo, soprattutto il lungo excursus sull’amore (che è di chiara derivazione platonica), ma non vi è ragione di dubitare della storicità dell’esempio. Unendo insieme le due testimonianze, si può supporre che, poiché riconosce che la musica ha in potenza un «peso tragico» e viene intonata da un attore commosso, Teofrasto potrebbe aver pensato che essa sia parte integrante della tragedia. Ne esce così confermata l’idea che il filosofo ammettesse la dimensione performativa come un aspetto implicito ma fondamentale dell’avvenimento tragico.

Su quale potesse essere la funzione della musica ricoperta dalla tragedia definita da Teofrasto, i testi mantengono il silenzio. Per colmare il vuoto e dissipare le nebbie del passato, ci si può dunque solo abbandonare a uno slancio dell’immaginazione. Forse Teofrasto pensò che il succo della rappresentazione tragica consista nell’ascoltare un eroe che, prostrato dal disastro e dai colpi della fortuna che non ha saputo governare, si mette improvvisamente a cantare per il dolore. Bisogna così immaginare che essere attraversati dal “tragico” significa ad esempio sentire Giocasta che intona una melodia struggente, dopo aver scoperto di essere giaciuta con suo figlio e prima del suicidio, commesso stringendosi un cappio al collo che Edipo aveva tante volte accarezzato con dolcezza.
La tragedia ha luogo in quella lineetta che separa il “sì” e il “no”, l’amore e la morte, l’affermazione intensa di sé attraverso il canto e la caduta finale nell’oblio. Se mai il teatro esiste e qualcuno l’ha evocato, esso deve risiedere nel punto di congiunzione tra gli estremi di questo sottile confine.

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La tragedia è il resoconto della fortuna eroica nell’avversità. Viene così definita da Teofrasto: «la tragedia è una circostanza della fortuna eroica». (…) La commedia si distingue dalla tragedia perché nella tragedia sono introdotti eroi, condottieri e re, mentre la commedia rappresenta persone umili e private; nella tragedia hanno poi luogo lutti, esilii, stragi, nella commedia amori e rapimenti di vergini. Ancora, divergono perché nella tragedia circostanze liete hanno frequentemente o quasi sempre una conclusione triste, e dove il riconoscimento di figli e antiche vicende peggiorano la situazione […]. Di conseguenza, [i due generi] sono definiti diversamente, poiché la commedia è un intreccio senza rischi, la tragedia una circostanza della fortuna. La tristezza è infatti la caratteristica della tragedia (Diomede, L’arte della grammatica 3, capitolo sui poemi, §§ 487-488 = fr. 708)

Siamo soliti chiamare «fortuna» quell’aspetto della vita che per gli uomini è difficile da calcolare. Se infatti fossimo in grado di riflettere su [tutto] correttamente, nemmeno il nome “fortuna” esisterebbe (Papyrus Pack 2 1574, col. 3 v.25-28 = fr. 487)

Ma il migliore relativamente alla trama e all’azione è quello detto; giacché un tale riconoscimento e capovolgimento comporteranno compassione o paura (e la tragedia si presenta come imitazione di tale tipo di azioni), poiché sia il cadere in sfortuna che l’acquisire fortuna seguono a questo genere di cose (Aristotele, Poetica, linee 1452a38-b3)

[Teofrasto scrisse il] Sulla recitazione, un solo libro (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro V, § 48)

In questi elementi, dunque, risiede la persuasività e in quel che dice Teofrasto che, cioè, «non bisogna dilungarsi con pignoleria su ogni cosa, ma bisogna lasciare qualcosa alla comprensione dell’uditorio». Quando questi capisce quel che hai tralasciato, diventa non solo tuo ascoltatore, ma anche tuo testimone e, al contempo, assume un atteggiamento più favorevole. Infatti lo hai fatto sentire intelligente fornendogli i mezzi per capire. Dire ogni cosa come si fa con gli stupidi è come disprezzare il proprio pubblico (Pseudo-Demetrio, Sullo stile 222 = fr. 696)

Anche il filosofo Teofrasto dice in modo simile che la recitazione è per un oratore il miglior ausilio per raggiungere la persuasione, partendo dai principi, dalle passioni dell’anima e dalla conoscenza di ciò, cosicché il movimento del corpo e il tono della voce sono in armonia con l’intera scienza (Atanasio, Prolegomeni al «De statibus» di Ermogene, p. 177.3-8 Rabe = fr. 712)

Ma la forza maggiore è nel viso, e nel viso il primo posto spetta agli occhi. Per questo agivano meglio i nostri antenati, che non erano entusiasti di un attore mascherato, fosse pure Roscio. I gesti infatti sono l’espressione dell’animo; specchio dell’animo è il volto e gli occhi ne sono gli interpreti: infatti questa è la sola parte del corpo che possa esprimere tanti atteggiamenti diversi quanti sono i sentimenti dell’animo; e in verità non c’è nessuno che possa esprimere i medesimi sentimenti con gli occhi chiusi. Teofrasto ci tramanda che un certo attore Taurisco soleva parlare con le spalle rivolte al pubblico, perché nella rappresentazione recitava tenendo fisso lo sguardo su un punto (Cicerone, Sull’oratore, libro III, § 59.221 = fr. 713)

Degne di menzione sono le cose che Teofrasto scrive nel Sull’entusiasmo. Costui infatti afferma che la musica cura molte cose che colpiscono [insieme] l’anima e il corpo, come lo svenimento, la paura e i disturbi della mente. Del resto, dice, suonare il flauto rimedia alla sciatica e all’epilessia, come si racconta a proposito di colui che andò dal musicista Aristosseno, dopo aver consultato l’oracolo […], e ne tornò guarito (Apollonio, Storie mirabili, § 49.1-3 = fr. 726a)

Ritengo che non ascolterai senza provare piacere alcune considerazioni introduttive sul senso dell’udito, che Teofrasto dice essere il più emotivo di tutti i sensi. Infatti, nulla di ciò che è visibile, gustabile, tattile provoca disturbi, turbamenti ed eccitazioni così intensi rispetto a quelli che avvinghiano l’anima, quando determinati schianti, botti e rumori colpiscono l’orecchio (Plutarco, Sul modo giusto di ascoltare, 37f-38a = Teofrasto, fr. 293)

Sossio si complimenta con quanti avevano escogitato questi omaggi; aggiunse che niente affatto a torto uno potrebbe prendere le mosse dalla dottrina di Teofrasto sulla musica, e precisò: «Or è poco che ho letto il suo saggio. Egli afferma che tre sono le scaturigini della musica, e cioè il dolore, il piacere e l’esaltazione, nel convincimento che ognuno di questi sentimenti muta ed altera la voce, allontanandola dal suo accento consueto. I dolori serrano in sé un lamento ed un gemito che si fa canto: ed è per questo che noi constatiamo che gli oratori, all’epilogo dei loro discorsi, e gli attori, nelle scene commoventi, quasi impercettibilmente, modellano e prestano la loro voce al canto. I moti incontenibili del cuore di quanti sono più sensibili di carattere scuotono e trascinano a movenze ritmiche l’intero loro corpo, ed essi sobbalzano e plaudono se danzare non possono. Gli uomini delicati poi, che giacciono in un tale turbamento, elevano la loro voce, sola, al canto ed alla declamazione ritmica e musicale. Con irruenza somma l’entusiasmo agita e squassa il corpo e la voce, lontana dagli atteggiamenti naturali e consueti, “e il delirio e l’urlo di quanti si agitano nel moto del capo reclinato” (secondo l’asserzione di Pindaro). Discende da ciò che le orge bacchiche si avvalgano di movimenti ritmici e che i vaticini siano dati, agli interroganti, in versi, e, fra quanti sono in preda a vaneggiamenti, ben pochi è possibile scorgere che si esprimano senza ritmo e senza musica. Questa è la natura dell’amore: e se desiderassi comprenderlo, dispiegandolo in piena luce, e conoscerlo fino in fondo, non vi scorgeresti alcun altro sentimento, né lo troveresti ricolmo di ansie più struggenti o di dolcezze più imperiose o di estasi e farneticazioni più possenti, ma, come la città di cui si legge in Sofocle, l’anima dell’uomo innamorato “di profumi insieme” è turgida “e di canti al dio e di pianti”. Orbene, non è affatto inusitato e sorprendente se eros accoglie in sé e serra quante mai sono le fonti della musica, cioè il dolore, il piacere e l’esaltazione, e dinanzi tutte le altre sensazioni è loquace e ciarliero, e all’invenzione di canzoni e di ritmi, come nessun’altra mai passione, è incline e prono» (Plutarco, Questioni conviviali I 5.2 = fr. 719a partim)

Non posso soprassedere sull’opinione di Teofrasto, dato che approvo e convengo con i suoi scritti, quando dichiara che coloro che desiderano elevare una musica attraverso le melodie trovano un incentivo e un non piccolo stimolo dalle passioni, che tutti i Greci chiamano pathe, le quali sono provocate da determinate pulsazioni dell’animo che va scaldandosi. In tal modo, essi intonano sublimi melodie drammatiche e canti che hanno un peso tragico. Egli distingue con le sue parole tre origini di queste [passioni] che [si impongono] in questo canto. Lo inducono il piacere, la rabbia e l’entusiasmo, quasi fossero piene di furore sacro, come lo chiamano i Greci, da cui i vati premonitori sono ispirati (Elio Festo Aftonio, Sui ritmi, § 4.2 = fr. 719b)

[La raccolta dei frammenti e delle testimonianza di/su Teofrasto si trovano nei due volumi di William W. Fortenbaugh (ed.), Theophrastus of Ereses. Sources for his Life, Writings, Thought and Influence, Leiden et alii, Brill 1992. Non esiste ancora una loro traduzione italiana. I testi citati sono tradotti da me, con alcune eccezioni:
1) Per Cicerone, ho usato Giuseppe Norcio (a cura di), Cicerone. Opere retoriche. Volume primo: De oratore, Brutus, Orator, Torino, UTET, 2000;
2) Per Demetrio, cito Nicoletta Marini (a cura di), Demetrio. Lo stile, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2007;
3) Per Plutarco, ricorro a Antonio M. Scarcella (a cura di), Plutarco. Conversazioni a tavola. Libro primo, Napoli, D’Auria, 1998.
Invece, la traduzione del passo di Aristotele è sempre quello di Daniele Guastini (a cura di), Aristotele. Poetica, Roma, Carocci, 2010]

Enrico Piergiacomi
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