Short Theatre 10. Apre la stagione più difficile per il teatro a Roma
Si apre e si chiude, l’esperienza del mondo. Non c’è un alibi in grado di proteggere la fragilità dello sguardo, l’ingenuità dell’espressione, non c’è una vastità che resti inafferrata, desolata in una dispersione irraggiungibile. L’arte, che chiude il mondo in una scatola e s’affanna a proteggerne pareti e contenuto, l’arte si spinge a dire là dove il già detto ha annientato l’ascolto, scarta oggi i regali di domani e li soffia via finché siano regali per chi passa, un giorno, o il giorno dopo. Il concetto di futuro nell’arte è un presente disatteso, tradito nella mancata assoluzione dell’immediato, colpevole di essere e impedire forse ciò che diviene. Ecco allora che l’apertura di Short Theatre 10, l’anno tondo di un divenire ormai certezza, non può non dedicarsi alla Nostalgia di futuro, quella del non vissuto già immanente nella sensibilità di una percezione volatile, prospettica, forse, già malinconia. E non è strano dirlo di Roma. Città eterna. O non più così tanto e forse meglio: città eternamente disillusa, asservita all’esercizio del potere. Fino al paradosso di perderne, anche verso sé stessa. È l’anno in cui Roma non ha più scuse, l’anno di un rilancio definitivo. E il teatro, avanguardia dell’esperienza, non ha più alibi di segretezza: esprima, oltre ogni posticcia dignità. Riconquistandola invece, quando perduta.
Nostalgia. Depressione emotiva nel pozzo incosciente della memoria. La gloria di un passato che sfugge di mano. L’età dell’oro. L’età, più che altro, del loro dominio intellettuale, a queste generazioni del tutto impermeabile, invece ritorte per converso alla contemplazione e alla celebrazione. Sono queste che Fabrizio Arcuri, direttore storico di Short Theatre, chiama insidie del tempo, orme troppo pigiate cui non si è in grado di opporre un’altra forma, un altro riverbero al desiderio.
Ma per inventarci cosa saremo occorre inventare ora – non aver già inventato – ciò che siamo stati, perché nasce proprio dal riflesso di quest’ombra che avanti e indietro inganna d’apparenza il corpo di cui un giorno sarà proiezione. E l’arte non si nutre che di questa saudade infinita, inguaribile. Estenuata nello sforzo di Danio Manfredini, della sua Vocazione d’artista, l’abbiamo vista accartocciarsi come carta nel fuoco vivo, senza nemmeno una forma di requie, vizzita nel corpo dell’attore che ogni sera tradisce sé stesso perché abbiano vita i propri personaggi, a rischio di finirne soffocato, senza poter tornare indietro.
E poi fiori. Aperture gridate di una corolla che forza i petali per estendersi allo sguardo, accelerazioni di ciò che non c’è stato tempo di vivere e appena sfiorisce, ma quel petalo che a terra cade è davvero, marcire? Ci sono fiori che rincorrono un’esistenza a non riconoscersi evoluzione, sul palco di MDLSX, esperimento performativo di Motus con il corpo, il sangue, la storia di Silvia Calderoni. Ci sono fiori nell’animo di ognuno che abbia coscienza di questa stagione determinante, c’è una rincorsa ad affermare quell’esistenza, gridarla quasi, c’è la stessa accelerazione dentro il rischio perpetuo di sfiorire. Saranno molte le nostre sembianze? Ce ne andremo come petali che il vento riporta, in una danza servile al corpo naturale della terra, e noi, perduti alla nenia che ci raccoglie, saremo capaci di far fiorire la nostra sfioritura?
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
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