Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento parliamo del complesso concetto di “catarsi” in Aristotele.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
La Poetica di Aristotele è un testo pieno di misteri. Sostanzialmente due sono quelli che più stimolano gli interpreti, i filosofi, gli studiosi. Il primo mistero ha a che fare con la definizione di tragedia. È noto come quest’ultima evochi l’idea della «catarsi» delle passioni di pietà e terrore, che sarebbe portata a compimento per il tramite dell’imitazione tragica, ovvero della mimesi dell’agire seria e compiuta di caratteri migliori rispetto all’ordinario. Ora, Aristotele non chiarisce mai nella Poetica che cosa significhi “catarsi”, e il silenzio sulla questione ha inevitabilmente portato a un proliferare di ipotesi esplicative.
C’è chi sostiene che il testo alluda a una purificazione medica, quindi che l’esperienza catartica sia un modo per guarire da stati emotivi patologici. Altri difendono l’interpretazione cognitiva, che vede la tragedia come una grande metafora in grado di dare a conoscere qualcosa che la passionalità grezza non rende accessibile. O ancora, vi sono coloro che difendono la tesi detta “edonistica” che, a partire dalle affermazioni di Aristotele secondo cui la mimesi tragica ha un suo “piacere proprio”, ne argomenta la natura come un modo per ricavare un godimento più raffinato. Tra le esegesi più diffuse vi è comunque quella di carattere etico. La catarsi tempera gli eccessi o i difetti delle emozioni di pietà e terrore, raggiungendo così quel “giusto mezzo” che caratterizza la psicologia dell’uomo virtuoso il quale, provando moderata compassione per le vicende umane o paura della morte e dei pericoli, può esercitare le virtù della benevolenza e del coraggio. Si registrano infine tentativi di spiegazione di carattere paideutico e politico, che si appellano al fatto che le disgrazie rappresentate dalla tragedia mettano in risalto la vulnerabilità dei beni degli uomini e invitino di conseguenza a stringere una maggiore coesione con i propri simili e la comunità di appartenenza, assistendo gli uni e l’altra quanto più possibile. Per completezza, vale poi citare la soluzione estrema che “butta via l’acqua con tutto il bambino”, ovvero l’asserzione che il riferimento alla catarsi nella definizione di tragedia non sia di Aristotele, ma costituisca un’interpolazione tardiva.
Il secondo mistero della Poetica è correlato al primo. Come viene portata a compimento la catarsi: con o senza attori? Il problema emerge dalla lettura dei passi della Poetica in cui Aristotele sembra sostenere che l’effetto tragico debba scaturire dalla semplice concatenazione dei fatti e possa essere provato anche alla sola lettura dei versi dei poeti, quindi che gli elementi della tragedia identificabili con la musica e la rappresentazione spettacolare siano accessori. Anche qui, non sono mancate molteplici spiegazioni, che possono essere ricondotte a due gruppi. Da un lato, troviamo gli argomenti di coloro che sostengono che Aristotele condanni il lavoro dell’attore come un orpello superfluo. Dall’altro, abbiamo le tesi di chi contestualizza le asserzioni aristoteliche, adducendo che in realtà esse danno alla buona concatenazione dei fatti – in effetti comprensibile anche alla sola lettura – una preminenza non esclusiva. Senza di essa, nemmeno la musica più entusiasmante e la migliore prova d’attore determinano il fine catartico della tragedia. Sarebbe presuntuoso e vano sperare di dare una risposta soddisfacente in poche battute a misteri tanto complessi quanto dibattuti, che peraltro non riceveranno mai una conferma testuale decisiva. Un qualunque tentativo in tal senso rischia di essere pericoloso come lanciare una roccia contro un vespaio. Quello che si propone di seguito è dunque un debole e inadeguato “abbozzo”, di carattere più suggestivo che dimostrativo.
Per quel che concerne l’atteggiamento di Aristotele verso il lavoro degli attori, risulto più persuaso dagli argomenti del secondo gruppo. Intanto, la tesi di una condanna totale del filosofo nei confronti di musica e spettacolo cozza con il passo in cui egli dichiara la superiorità della tragedia sull’epica, che tra le varie cose si caratterizza appunto per il rappresentare i fatti con l’aggiunta della melodia e della messa in scena. In secondo luogo, essa è ridimensionata da un importante passo della Retorica, dove si sostiene che chi imiti con la voce, il gesto, la figura ha la capacità di rendere “visibile il male” e così di far provare maggiore pietà (probabilmente anche paura), quasi come se la tragedia raccontata fosse prossima a verificarsi o persino già accaduta. L’impressione generale che si ricava è forse che Aristotele avanzi tali dichiarazioni non solo per affermare la preminenza della concatenazione dei fatti, ma anche per sostenere che il lavoro del drammaturgo che compone la fabula è reso più efficace da quello dell’attore, al quale si riconosce una specifica competenza: la capacità di far provare allo spettatore quelle esperienze paurose e commoventi che la sola lettura del testo può sì determinare, ma in maniera più flebile. Se dunque è vero che musica e spettacolo non producono catarsi in assenza di una buona composizione dei fatti, è altrettanto vero che quest’ultima non incide profondamente sugli spettatori, senza il supporto di una melodia e di almeno un interprete.
La difficilissima questione della catarsi può invece ricevere un’altra interpretazione, di carattere metafisico. Gli avvenimenti tragici che determinano pietà e terrore rivelano la sostanza dell’uomo, la sua natura autentica, che si caratterizza sia per la sua grande fragilità, sia per le sue enormi potenzialità morali e conoscitive, che né gli animali né dio posseggono. La tragedia si rivolge dunque tanto a coloro che nutrono l’opinione errata di essere invulnerabili per le loro ricchezze o il loro potere − opinione che crolla vedendo che anche Aiace e Agamennone cadono in disgrazia − quanto agli spiriti desiderosi di compiere grandi imprese. Si piange e si trema, infatti, anche di fronte ad Antigone, che si erse contro le sopraffazioni brute del potere per difendere il fratello morto, o a Edipo, che non desiste dallo scoprire chi è di fronte a una schiera di persone che lo invita a rinunciare alla ricerca, cioè davanti a casi di eroi che nella disgrazia diedero prova di rettitudine e intelligenza. La catarsi tragica ha allora la capacità di indurre a pensare che il bene dell’uomo non risieda nel fragile possesso di beni materiali, ma in ciò che può moralmente e intellettualmente compiere, persino nella circostanza più avversa. Tra quelle già formulate finora, l’interpretazione metafisica è più vicina all’esegesi cognitiva, benché se ne distingua per il fatto di non identificare il medium conoscitivo in un elemento razionale (i.e., la metafora) che contiene la passionalità dannosa, bensì al contrario in un’esaltazione passionale che rende più acuto e vigoroso l’esercizio dell’intelletto.
Si racconta che il cinico Diogene si aggirasse di giorno per le strade di Atene con una lanterna in mano. Diceva di cercare l’uomo. L’attore di Aristotele fa lo stesso, sicché la sua attività può essere definita come una sorta di “lanterna catartica”, che però cerca l’umanità non alla luce del sole, ma tra le ombre. Col suo teatro povero, paragonabile alla piccola e angusta botte del cinico, l’artista evoca con mezzi modesti qualcosa di grande, che al tempo stesso svela la pochezza dei cosiddetti potenti e le grandi risorse dell’anima umana. Il suo è un lavoro dall’esito dolce-amaro, connotato costantemente da gioiosa tristezza.
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Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e conclusa, dotata di grandezza, con un discorso reso piacevole, differentemente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite narrazione, la quale imitazione, attraverso compassione e paura, porta ad effetto la catarsi di siffatte passioni (Poetica, 1449b24-28)
Tra le parti rimanenti, la composizione musicale è il più importante degli ornamenti, mentre la messa in scena è l’elemento più seducente, ma anche il più lontano dalla tecnica e il meno proprio dell’arte poetica. Infatti, la potenzialità della tragedia è a parte dai concorsi drammatici e dagli attori, e per di più, relativamente alla costruzione della messa in scena, la tecnica scenografica è più importante di quella poetica (Poetica, 1450b15-20)
Ciò che è pauroso e degno di compassione può senz’altro conseguire dalla messa in scena, ma anche alla composizione stessa dei fatti, il che è la cosa primaria e propria del miglior poeta. È necessario, infatti, comporre la trama in modo tale che chi ascolta i fatti accaduti rabbrividisca e provi compassione per ciò che accade, anche senza la visione; cosa che si può provare ascoltando la trama dell’Edipo. Invece, il mettere a punto tale effetto per mezzo della messa in scena è più estraneo alla tecnica e ha bisogno di un complesso di mezzi scenici (Poetica, 1453b1-8)
Ma, per prima cosa, l’accusa non riguarda la tecnica poetica, bensì la recitazione, in cui, dopotutto, è possibile eccedere con i segni esteriori anche se si è rapsodi, come Sosistrato, o se si è cantori, come Mnasiteo d’Opunte. E poi non ogni movimento è da censurare, se è vero che non lo è la danza, ma solo quelli di poco valore, come si rimprovera a Callippide e ora ad altri che imitano donne non degne. Inoltre la tragedia realizza ciò che le è proprio anche senza movimento, come l’epica, in quanto alla lettura è qualcosa che ha realtà evidenti. Dunque, se è superiore quanto al resto, la suddetta accusa non le attiene di necessità. Quindi, ha tutto ciò che è proprio dell’epica (è, infatti, possibile anche renderla in metri), e in più, il che non è piccola parte, la musica e le messe in scena, attraverso cui combina i piaceri nella maniera più evidente. E ciò è visibile sia alla lettura che alla messa in opera (Poetica, 1462a5-18)
Poiché le sventure che appaiono prossime suscitano pietà, e poiché quelle che sono accadute o accadranno a distanza di diecimila anni, che noi né possiamo attendere né possiamo ricordare, o non ci muovono a pietà per nulla o non nello stesso grado, ne consegue necessariamente che quelli che arricchiscono il loro discorso con i gesti, con la voce, con l’abbigliamento e in generale con la mimica, suscitano maggiormente pietà: essi infatti rendono visibile il male, ponendocelo sotto gli occhi o come prossimo o come accaduto (Retorica, libro II, 1386a29-b1)
Durante il giorno [Diogene] andava in giro con la lanterna accesa, dicendo: «Cerco l’uomo» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VI, § 41)
[La traduzione del passo della Retorica è quella finora utilizzata, ossia: Armando Plebe, Manara Valgimigli (a cura di), Aristotele. Retorica e Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1992. I passi della Poetica sono invece tratti da Daniele Guastini (a cura di), Aristotele. Poetica, Roma, Carocci, 2010, a cui si rimanda anche per il fitto e utile commentario. Infine, l’aneddoto su Diogene il cinico è desunto da Marcello Gigante (a cura di), Diogene Laerzio. Vite dei filosofi, Roma-Bari, Laterza, 2002]
Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo
Molto bello.
Il tema, intorno al quale abbiamo anche ultimamente discusso durante una riunione del Libero Gruppo, non è facilmente definibile e non è condensabile in poche parole. Ma questo scritto presenta, a mio avviso, una delle migliori sintesi possibili. Peccato che Aristotele non prenda in cosiderazione una terza modalità (poichè sicuramente non era nel suo tempo contemplata) e cioè la lettura ad alta voce della tragedia. Io penso, come tu sai, che questa “radiofonica via di mezzo”, sia talmente di mezzo da risultare persino centrale, nell’arte del recitare. Un esercizio straordinario che forse racchiude l’essenza prima dell’elemento “teatrico”. Anche se non considerato da Aristotele, il rapporto lettura-catarsi potrebbe essere un ottimo spunto di riflessione.
Un caro saluto.
Claudio
Caro Claudio,
esatto: come per ogni concetto di grande complessità, anche per la catarsi poche parole non bastano. Dal punto di vista di Aristotele, ci sono tante altre questioni che devono essere sollevate e risolte: il rapporto tra passione e virtù, la teoria della metafora, che cosa siano la pietà e il terrore, perché l’esperienza tragica è piacevole e insieme dolorosa, e via dicendo. Sul piano teorico, sai invece che la mia idea è che bisogna ricorrere a un’impostazione “sistemica”. La dottrina della catarsi si interseca con l’epistemologia, la psicologia e l’etica, quindi un discorso estetico deve anche solo cursoriamente confrontarsi con questi tre ambiti.
Alla tua seconda questione non so invece rispondere. Ho infatti un dubbio, che costituisce anche un mio ulteriore spunto di riflessione: bisogna capire che cosa intende Aristotele, quando parla di “lettura”. Gli antichi leggevano ad alta voce, sicché non si può escludere che egli intendesse con “leggere” proprio l’attività a cui ti riferisci. E’ però anche vero che Aristotele aveva fama di colui che leggeva in silenzio i libri della sua ampia biblioteca. E poi la “Poetica” non considera la “lettura” un’attività compiuta da un attore. Ciò significa che, quand’anche essa fosse un leggere ad alta voce la tragedia, probabilmente non era compiuto da un artista, dunque che il tuo discorso ancora regge.
Diciamo dunque che la questione che sollevi sarà senz’altro approfondita in futuro, ma non subito. Si suole far terminare la storia della filosofia antica nel 529 d.C., data in cui Giustiniano chiude la scuola platonica di Atene. E noi siamo ancora nel IV secolo a.C.; molte altre personalità interessanti aspettano di essere interrogate. Un caro saluto,
Enrico.
Getto li un paio di spunti di riflessione:quanto la teoria dei neuroni specchio ha a che fare con la consapevolezza del Meccanismo catartico nei poeti tragici? Quanto la condivisione di esplorazione mimetica intorno o sui limiti ed i tabù dell’uomo sociale? Nell’analisi dello Ione emerge una visione decisamente provocatoria dell’attore da parte di Socrate, ma è evidente che la sua posizione è strumentale al fine di sottolineare la natura imponderabile del talento che oggettivamente tale é. Ma sappiamo che con poco talento e molto esercizio la creazione artistica può aver luogo. Non di certo il contrario….
Cara Marinella,
grazie per il denso commento. Non è affatto un sassolino quello che lanci: è un macigno.
Il richiamo alla teoria dei neuroni-specchio è cogente, e infatti è forse la teoria scientifica che meglio spiega i processi di identificazione che lo spettatore ha di fronte al processo mimetico (come sai, ne parlava gia Havelock, a proposito della ricezione dei poemi omerici: http://www.ibs.it/code/9788842022169/havelock-eric-a-/cultura-orale-civilta.html ). Una delle cose che vorrei un giorno argomentare è che di fatto anche lo spettatore è un attore, o almeno è un suo co-adiutore, perché di ripete a livello neurologico le stesse azioni di chi recita.
Sullo Ione, mi trovi d’accordo. Mi hai fatto in ogni caso pensare a una cosa. Anche lo Ione accenna forse, molto implicitamente, a una catarsi tragica (o meglio, visto che parliamo di un rapsodo, di una “catarsi epica”)? In fondo, quando Aristotele descrive le passioni di pietà e terrore, il processo mimetico, ecc., attinge a una tradizione estetica comune, compresa quella sofistica. Lo Ione potrebbe costituire uno di questi tanti bacini. Se è così, la tua riflessione sul rapporto tra tecnica e talento può essere riformulata come segue: la catarsi è più frutto di esercizio, di contributo personale e spontaneo dell’artista, o di una sintesi tra le due?
Grazie infinite. Un caro saluto,
Enrico.