Kilowatt Festival 2015. Molti spettacoli e ancora grande attenzione al lavoro sul pubblico
«Come possiamo portare il teatro in mezzo agli uomini?» si chiedeva, e ci chiedeva, Leo de Berardinis nell’introduzione al programma della XXV edizione di Santarcangelo dei Teatri, nel 1995. Partendo da questa domanda Kilowatt Festival elabora una peculiare strategia di condivisione, perché gli spettacoli cui si assiste nel borgo toscano, dal 2008 a oggi, sono selezionati, in parte, dai cittadini. C’è un gruppo di “Visionari” che si riunisce durante l’anno per esaminare le proposte, e che incontra, nelle giornate di festival, gli artisti scelti per discutere del loro lavoro. Una vocazione che è valsa anche un riconoscimento internazionale, perché Kilowatt e il Comune di Sansepolcro sono stati selezionati dalla Commissione Europea come capofila di un progetto di cooperazione, Be SpectACTive. Obiettivo la formazione, in quattro anni, di un gruppo di spettatori attivi in otto città europee, ma sono previste anche residenze, spettacoli e conferenze (leggi qui il progetto completo).
Portare il teatro in mezzo agli uomini è anche abitare i luoghi, e attraversarli. Kilowatt, giunto alla XIII edizione, vive Sansepolcro nelle strade, nelle piazze, negli edifici storici. Ed è camminando per il centro, il 23 e il 24 luglio, che si incontra Ippolito Chiarello, attore pugliese che vende porzioni del proprio spettacolo. Un menù, con titoli e relativi costi, viene distribuito al pubblico, che può comprare un pezzo di pochi minuti per pochi euro. Una forma di barbonaggio teatrale fatta per strada, su un piedistallo. Per un consumo rapido, godibile, in una modalità che potremmo definire fast theatre.
E se il menù di Chiarello è estremamente digeribile, e facilmente fruibile, ad esserlo meno è Ad alta tensione di Cappellani-Di Rienzo-Fiorelli, performance che mescola danza e arti visive. In una porzione di palco, Katia Di Rienzo si muove nell’installazione di fili di Emanuela Fiorelli, facendosi scivolare sul corpo i video di Massimo Cappellani. Pur apprezzando l’estrema pulizia delle immagini, declinate in bianco e nero, e della forma, non riusciamo ad assorbire ugualmente i metodi di partecipazione. Avremmo preferito muoverci nello spazio, avere la possibilità di defluire, scegliere con maggiore autonomia i tempi e le modalità di assimilazione.
È in Piazza Torre di Berta trasformata in spiaggia, dove una sdraio si acquista per due euro, che vediamo Simurgh del Teatro dei Venti. Arrivano da lontano gli uomini-uccello, trampolieri dotati di ali, occupano lo spazio con danze e acrobazie, raccontano di una città utopica in tempo di pace, di una guerra fra opposte fazioni, dell’inizio di una nuova era. Teatro da strada, teatro popolare, teatro per tutti.
Parlare agli uomini, dunque. Con linguaggi e tematiche differenti, certo. È un linguaggio interessante quello messo in campo dalla compagnia Blitz in Su’ddoccu, lavoro speculare, dialettale, ritmico. Se il duo al femminile incanta per il gioco di suoni, di parole, di azioni, ci risulta, però, difficile andare oltre l’esercizio di stile, a rintracciare l’umanità di un Sud che resta solo accennato.
È più facile, invece, scovare l’umanità nei personaggi di Lourdes, che vede Andrea Cosentino diretto da Luca Ricci (drammaturgo e regista di CapoTrave e direttore artistico di Kilowatt). Presentato in prima nazionale ai Teatri del Sacro (leggi il pezzo di Andrea Pocosgnich) e ispirato all’omonimo romanzo di Rosa Matteucci, lo spettacolo racconta un viaggio verso la nota località religiosa. Viaggio che porta in sé una serie di domande, sulla carità e sulla fede, sulla vita e sulla morte. Riconosciamo in quelle parole che scorrono le une in fila alle altre, nelle diversità di intonazione, il modus recitandi dell’artista abruzzese. Quello scivolare di personaggio in personaggio (a volte en travestie) senza mai lasciarsi possedere da nessuno, quell’alternarsi fluido di racconti (in prima e terza persona) e dialoghi, quella frammentazione calibrata, che non esce mai dalle traiettorie della storia. A sospendere, più che spezzare, il ritmo cosentiniano, e a dargli respiro, la musica in scena di Danila Massimi. I tipi umani tratteggiati non ci paiono poi tanto differenti da quelli che affollano il teatro di Cosentino, quegli stereotipi all’italiana che abbiamo visto sfilare dietro la cornice vuota di Telemomò o in gita verso l’Asinara (ne L’asino albino). Ma dietro il grottesco si nascondono lo spaesamento, la fragilità, in questo caso di Maria Angulema – la protagonista – che nel tentativo di elaborare un lutto, si trova a mettere in discussione se stessa e le proprie convinzioni.
E si confronta con il concetto di morte Tu mangi io muoio dei Quotidiana.com, secondo capitolo della trilogia Tutto è bene quel che finisce. Nel primo capitolo L’anarchico non è fotogenico (visto nella rassegna sassarese Marosi di Mutezza) Paola Vannoni e Roberto Scappin elencano una serie di atteggiamenti che non dovrebbero sopravvivere, dal sentimento del Natale alla flemma degli operai comunali, dall’incapacità di attuare un progetto sovversivo all’ignavia che impedisce di costruire un mondo migliore. Morti impossibili, eutanasie negate, nella cultura e nel teatro, nella politica e nella vita.
Ad essere portata sul palco dell’Auditorium di Santa Chiara è una malattia in età senile, una quotidianità ospedaliera, è una riflessione sulla dignità della vita.
Nella scena – sempre asettica e illuminata con luci a neon – pochi elementi, due sedie, l’una di fronte all’altra, una Madonna col bambino sul fondo, e un lenzuolo che ha più di una valore, a sottolineare che in teatro ogni oggetto può avere qualsiasi funzione si decida di attribuirgli. Il telo bianco, abbandonato sul proscenio, è un sudario, quello del padre di Paola, è il gatto, presenza costante nella vita della coppia, ma è anche la cena da consumare e un simbolo di intimità – «le tenerezze che ci scambieremo più tardi».
Tutto è giocato sul dialogo, che scivola lento, con quel tono apatico cui i Quotidiana ci hanno abituato, quell’ironia sottile, quell’amarezza di vivere che stavolta si fa ancora più amara.
Poche, pochissime le azioni, spesso ridicolizzate, a porre l’accento sull’impossibilità (o l’inutilità) di riprodurre in teatro i gesti del quotidiano.
C’è, in Tu mangi io muoio, la critica di un sistema, la difficoltà a incanalarsi in schemi precostituiti, l’attacco alla morale cristiana, il confronto tra la generazione dei padri e quella dei figli.
Il tutto cullato da quell’andatura indolente che costituisce la cifra dei due artisti, che ce li rende immediatamente riconoscibili, e prossimi, per la loro capacità di affrontare con naturalezza, le piccolezze del quotidiano e i misteri universali.
Parlare agli uomini, appunto. E in mezzo a loro portare il teatro.
Rossella Porcheddu
Twitter @Ross_Porcheddu