Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento parliamo di come Aristotele guardi agli attori in rapporto ai grandi retori.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Aristotele dedica i capitoli 1 e 12 del libro III della Retorica alla recitazione, che non pare essere descritta in toni molto lusinghieri. Dai pensieri esposti in questo testo, sembra essere definita come l’arte della declamazione: l’arte cioè di usare la voce in modo persuasivo per l’uditorio, attraverso l’adozione del giusto volume, della corretta intonazione e del buon ritmo. In sé, la definizione non qualifica la recitazione in senso spregiativo, anzi si limita a riscontrare una componente tecnica importante del lavoro di chi recita. Le cose cambiano, però, nel momento in cui Aristotele guarda a come essa venga usata dagli oratori. Il filosofo rileva che costoro riescono a usare la recitazione per vincere qualunque dibattito, ma non perché si facciano portavoce di una profonda verità, o presentino un’esposizione adeguata e dimostrativa dei fatti. Infatti, posto che la massa degli uomini è di animo moralmente basso, dunque non vuole stare a sentire le cose come stanno, gli oratori convincono l’uditorio ad abbracciare la propria causa, innescando una reazione piacevole o una dolorosa. Si pensi, per esempio, alla scelta di far adirare gli ascoltatori per indurli a condannare a morte una persona che si sospetta si sia macchiata di un crimine contro la città. In questo frangente, non conta dimostrare che quell’individuo è colpevole. Importa solo impostare la voce in modo alto, armonizzare il discorso con tono grave, disporre le parole secondo un ritmo accelerato, al fine di spingere la folla degli omuncoli perversi a linciare un uomo magari innocente.
A ulteriore riprova della povertà della recitazione degli oratori, si può notare che Aristotele distingue nettamente la natura degli scritti pensati per essere letti (o pronunciati di fronte a un giudice competente) e quella dei canovacci destinati alla declamazione. Mentre i primi espongono qualcosa in modo preciso, ma risultano inefficaci a convincere una folla, i secondi hanno i caratteri contrari, vale a dire esprimono un pensiero impreciso, ma capace di far presa sull’uditorio. Si può così dedurre un principio valido in generale: lì dove vi è maggiore precisione, vi è pure minore spazio per la recitazione. Viceversa: lì dove vi è minore precisione, vi è anche maggiore spazio per la recitazione. L’efficacia recitativa della prestazione oratoria è allora direttamente proporzionale all’imprecisione dei contenuti, appunto perché l’oratore non presta attenzione alla verità fattuale, bensì mira alla semplice mozione degli affetti. La recitazione degli oratori può allora essere ridefinita come l’arte del mentire attraverso la voce ben modulata, intonata e ritmata, per ricavarne un misero successo temporaneo. Sembra tuttavia che tale definizione si applichi solo in parte agli attori.
È vero che anche costoro non ricevono un trattamento benevolo da parte di Aristotele. Alcuni passi dell’Economico e dei Problemi – che, tuttavia, sono di incerta paternità aristotelica – mostrano che il filosofo non era sfuggito ai pregiudizi diffusi nella sua epoca. Per lui gli attori sono uomini che fingono dietro i loro travestimenti, insipienti, di sentimenti volgari e che trascorrono la vita in sfrenatezze e difficoltà. Nondimeno, essi vengono contrapposti esplicitamente nel problema 4 del libro XXVIII dei Problemi agli oratori, in qualità di persone non astute e che mirano solo a procurare agli altri piacere – prospettiva che ritorna peraltro nelle Divisioni. La distinzione non viene del resto invalidata dal capitolo 1 della Retorica. Qui gli attori sono infatti equiparati agli oratori esclusivamente per mostrare che, come loro, essi ricevono un immeritato apprezzamento da parte della folla, non per dire che sono portatori di un’arte menzognera che mira al vantaggio. Il testo dice solo che «gli attori hanno maggior successo dei poeti», i quali probabilmente sono coloro che dovrebbero ricevere il plauso dagli spettatori per i loro versi, prima ancora di coloro che li recitano.
Per tirare le somme, potremmo dire quanto segue. Secondo Aristotele, la recitazione è definibile, dal punto di vista del genere, come l’arte del mentire attraverso la voce. Nelle sue specie, tuttavia, essa si distingue per lo scopo a cui mira la menzogna. La recitazione dell’oratore mente a fini di guadagno, mentre quella dell’attore a fini di piacere. In altri termini, l’attore pratica la menzogna come l’oratore, ma con intenzioni meno astute e più ingenue.
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Dopo di ciò, dobbiamo trattare dell’elocuzione; infatti non è sufficiente possedere gli argomenti che si debbono esporre, ma è necessario esporli come si conviene, e ciò contribuisce molto all’impressione che suscita il discorso. Come era naturale, dapprima si indagò ciò che naturalmente si presenta per primo, cioè donde gli argomenti stessi traggano la persuasività; in secondo luogo, poi, l’esposizione di essi attraverso l’elocuzione; in terzo luogo, infine, un fattore che possiede una grandissima efficacia non è stato ancora sviscerato, cioè lo studio della declamazione. Esso giunse tardi, infatti, anche nella tragedia e nella recitazione rapsodica: dapprima infatti recitavano le loro tragedie gli stessi poeti. Evidentemente, dunque, anche nella retorica questo fattore si trova nella stessa situazione che nella poetica, dove, tra gli altri, fu teorizzato da Glaucone di Teo. La declamazione riguarda la voce, cioè come ci si debba servire di essa per ciascuna passione: ad esempio, quando debba essere forte, quando debole e quando media; e quali intonazioni debba avere, se quella acuta, quella grave o quella media; e quali ritmi a seconda di ciascun caso. Tre sono infatti gli scopi a cui si mira, riguardo ad essa: il volume, l’armonia e il ritmo. Quelli che li raggiungono ottengono per lo più le vittorie nei dibattiti, e come nei teatri al giorno d’oggi gli attori hanno maggior successo dei poeti, così anche nei dibattiti politici accade una cosa analoga, a causa del decadimento morale dei cittadini. Non si è ancora composta una tecnica di questi elementi, perché anche la teoria dell’elocuzione è venuta tardi; infatti quest’argomento è considerato, e a ragione, volgare. Ma poiché tutta la trattazione della retorica riguarda l’opinione, bisogna occuparsene non perché ciò sia giusto, ma perché è necessario. Infatti nel discorso sarebbe giusto il non mirare né ad addolorare, né a procurar piacere; giusto sarebbe dibattere in base ai soli fatti, sì che le altre cose che sono estranee alla dimostrazione vengano considerate superflue. Tuttavia queste cose hanno grande efficacia, come ho detto, a causa della bassezza degli ascoltatori (Retorica, libro III, capitolo 1, linee 1403b14-1404a8)
L’elocuzione scritta è la più precisa; quella del dibattito è la più affidata alla recitazione. Di quest’ultima vi sono due specie: quella esprimente caratteri e quella esprimente emozioni. E vanno in circolazione quelli che sono migliori per la lettura, come Cheremone, che è preciso come un logografo e come Licinio tra gli scrittori di ditirambi. Confrontate fra loro, le opere degli scrittori appaiono smilze nei dibattiti, mentre quelle degli oratori o dei parlatori sembrano invece dilettantesche. Il motivo è che esse sono fatte per il dibattito: perciò i brani recitativi, quando si tolga la recitazione, non svolgendo il loro compito, sembrano banali; ad esempio, gli asindeti e le frequenti ripetizioni sono giustamente deprecati nella prosa scritta, ma non in quella del dibattito, e gli oratori se ne servono, poiché sono fatti per la recitazione (Retorica, libro III, capitolo 12, linee 1413b8-23)
L’elocuzione dei discorsi politici è del tutto simile al disegno abbozzato: infatti quanto più numerosa è la folla, quanto più è distante la vista dell’ascoltatore, tanto più superflua, anzi dannosa appare l’esattezza in entrambe le cose [il discorso e l’abbozzo]. Invece l’elocuzione forense è più precisa; ancor più se si è di fronte a un solo giudice, mentre lo è meno nelle esposizioni retoriche; infatti [nell’elocuzione forense] l’essenziale e l’irrilevante dell’azione si vedono più facilmente; e manca la contesa, per cui il giudizio è puro. Perciò non gli stessi oratori hanno successo in tutti questi tipi; bensì la dove vi è maggior recitazione, ivi si trova minor precisione: ivi infatti domina la voce, e soprattutto la voce alta (Retorica, libro III, capitolo 12, linee 1414a8-17)
Quanto all’ornamento, come non devono avere rapporti reciproci persone dal carattere finto, lo stesso vale se la finzione riguarda il corpo: le relazioni che si fondano sull’ornamento non differiscono da quelle degli attori nei loro travestimenti (Economico, libro I, linee 1344a18-22)
Perché diciamo che un oratore o uno stratega o un mercante è “accorto”, mentre non lo diciamo di un auleta o di un attore? Forse perché la capacità di questi ultimi non ha a che fare col guadagno, mirando a procurare piacere; mentre la capacità dei primi è finalizzata al guadagno? (Problemi, libro XVIII, problema 4)
Perché gli artisti di teatro sono in genere persone di scarsa moralità? Forse perché partecipano in minima parte della ragione e del sapere, in quanto per gran parte della loro vita sono occupati in attività cui sono costretti, e vivono per lo più nella sregolatezza o anche nell’indigenza? Entrambe le condizioni predispongono a un cattivo comportamento (Problemi, libro XXX, problema 10)
[La traduzione dei passi della Retorica è di nuovo tratta dal volume Armando Plebe, Manara Valgimigli (a cura di), Aristotele. Retorica e Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1992. L’estratto del libro I dell’Economico provengono da Renato Laurenti (a cura di), Politica, Trattato sull’economia, Roma-Bari, Laterza, 2004. Infine, i problemi attribuiti con incertezza ad Aristotele sono tradotti da Maria Fernanda Ferrini (a cura di), Aristotele. Problemi, Milano, Bompiani, 2000]
Enrico Piergiacomi
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