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Teatrosofia #18. L’incontinenza dell’attore in Aristotele

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento parliamo di una riflessione di Aristotele sull’attore a partire dal concetto di “incontinenza”

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

J. Jelgerhuis, Expressions of Fear Actors, in Theoretische lessen over gesticulatie en mimiek, Amsterdam 182
J. Jelgerhuis, Expressions of Fear Actors, in Theoretische lessen over gesticulatie en mimiek, Amsterdam 182

È risaputo che la riflessione più articolata di Aristotele sul teatro e sull’attore sia condotta nella Poetica. Meno noto è che il filosofo si confronta con l’uno e con l’altro anche in altre opere, con lo scopo di chiarire o esplicitare meglio alcune sue tesi. Uno di questi luoghi è costituito dal capitolo 5 del libro VII dell’Etica Nicomachea, dove un riferimento alla recitazione dell’attore è usato nella spiegazione del comportamento della persona incontinente. Data l’estrema laconicità del dettato aristotelico, dovuta al fatto che originariamente i trattati che oggi leggiamo costituivano solo degli appunti o “canovacci” da usare nelle lezioni rivolte a un uditorio specialistico, cercherò di parafrasare il testo fornendo di continuo degli ampliamenti o degli esempi.

Che cosa Aristotele intenda indicare con la parola “incontinente”, lo si legge nel finale del capitolo 4 della stessa Etica Nicomachea. L’incontinente (akratés) è definito come colui che non riesce a trattenersi dal cercare i piaceri vergognosi, ad esempio commettere adulterio, pur sapendo che non vanno inseguiti, distinguendosi così dall’intemperante (akólastos) che, al contrario, sceglie premeditatamente di seguire questi godimenti. Insomma, il primo non riesce a controllarsi, benché abbia la sapienza di ciò che si deve evitare, mentre il secondo non vuole controllarsi e approva il suo abbandono alle pulsioni malvagie con il ragionamento.

Il punto che interessa Aristotele è chiarire perché la persona incontinente non riesca a trattenersi, malgrado sia sapiente. La sua spiegazione si avvale di due fini distinzioni. In primo luogo, “sapere” si dice in due sensi: “possedere la sapienza e farne uso” e “possedere la sapienza ma non farne uso”. In secondo luogo, nel sapere va distinta una conoscenza dell’universale e una del particolare, dalla cui combinazione può scaturire l’azione. Aristotele ha in mente quello che tecnicamente è chiamato «sillogismo pratico». Data la premessa maggiore-universale “a ogni uomo fanno bene gli alimenti secchi” e la premessa minore-particolare “questo alimento è secco”, allora una persona che sa che la salute sta nel mangiare cose secche e che le noci sono secche, mangerà le noci per stare in salute.

Ora, il cuore del discorso di Aristotele è che l’incontinente è colui che, in un certo senso, possiede la sapienza ma non ne fa uso, ovvero ha sapienza dell’universale ma non lo traduce in atto, poiché ignora o non riconosce la premessa particolare che gli consentirebbe di fare ciò che gli è universalmente noto. Il filosofo lo equipara didatticamente a chi è ubriaco o è folle. Come costoro per esempio sanno che buttarsi da un dirupo è mortale, ma a causa della loro condizione fisica non riconoscono che “questo è un dirupo” e si buttano di sotto, così l’incontinente sa che “ci si deve astenere da ogni relazione adulterina”, ma poiché il desiderio sessuale è talmente forte da avvicinarlo a una condizione fisica di follia o ubriachezza, egli ignora o non riconosce che “questa è una relazione adulterina” e commette adulterio.

A questo punto Aristotele previene e respinge un’obiezione. Non si può dire che chi è incontinente in realtà ha sapienza anche del particolare, notando che questi sa articolare nel suo delirio sessuale dimostrazioni coerenti, le quali consistono in deduzioni da premesse maggiori e minori. Si vede spesso che chi è ubriaco o folle recita tranquillamente le dimostrazioni compiute nei versi di Empedocle. Eppure, costui si butterà lo stesso di sotto, non riconoscendo che “questo è un dirupo”. Come dirà in seguito nel passo 1147b9-12, l’apparente discrasia si spiega sottolineando che chi è ubriaco o folle non “sa” cosa esprimono le dimostrazioni di Empedocle, ma le “dice” e basta. In altri termini, chi recita i versi empedoclei in quelle condizioni non comprende i loro contenuti particolari, ma li esprime senza capirli. Si può così dedurre che chi è incontinente si comporta come un attore, che apparentemente dice qualcosa senza sapere o comprendere.

Può sembrare strano leggere questa equiparazione finale tra le due figure. L’attore in genere non recita da ubriaco o da folle sulla scena. Aristotele non sembra dunque giustificato a dedurre, dal caso di colui che recita Empedocle in preda al vino o alla follia, che tutti coloro che recitano di fatto recitano come se fossero in preda al vino o alla follia. Un anonimo commentatore dell’Etica Nicomachea provò a giustificare l’equiparazione richiamando il rapporto tra l’attore e la sua maschera scenica. Quello non pensa davvero le parole o i contenuti dei discorsi che pronuncia quando impersona Ettore o Achille, ma si limita a pronunciarli. Ma la sua proposta non è a sua volta valida, per il semplice fatto che non è aderente al testo. Aristotele non nomina mai la maschera scenica, né usa il termine “pensare”: il già citato passo 1147b9-12 riporta esplicitamente il verbo “sapere”.

Può darsi che la soluzione consista, invece, in un parallelo con un passaggio del libro III della Retorica, dove Aristotele dice che chi recita poesia è ispirato, cioè in preda all’entusiasmo, che potrebbe a sua volta essere inteso come un’esaltazione irrazionale che rende chi la esperisce simile alla condizione di chi è ubriaco o è folle. L’equiparazione sarebbe perciò corretta, perché il filosofo è convinto che l’attore che recita è in uno stato psichico anormale, come già pensava Platone nello Ione.

Si potrebbe comunque trarre, dal discorso di Aristotele, anche la conclusione inversa. Se chi è incontinente che non sa né comprende il particolare si comporta come l’attore, allora entro certi limiti è vero anche il contrario, ossia che chi recita non sa né comprende quanto dice di particolare. L’attore recita dunque come se fosse in preda dell’incontinenza.

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L’intemperante è spinto in accordo con la sua scelta, dato che ritiene che si deve sempre perseguire ciò che è piacevole al momento, mentre l’incontinente non ritiene opportuno perseguire tali cose, e tuttavia le persegue (Aristotele, Etica Nicomachea, libro VII, capitolo 4, passo 1146b22-24)

Inoltre, il possedere la scienza in modo diverso da quelli enunciati ora è cosa che può accadere all’uomo, infatti noi vediamo che lo stato abituale presenta una differenza nell’ambito del “possedere ma non fare uso”, differenza tale che è possibile, in un certo modo, possedere e non possedere la scienza, come ad esempio nel caso di chi dorme, è folle o è ubriaco. D’altra parte coloro che sono preda delle passioni si trovano proprio in tale disposizione, infatti gli impeti, i desideri sessuali e alcune cose simili modificano, in modo evidente, la stessa condizione corporea, e in alcuni individui producono anche casi di follia. Quindi è chiaro che si deve dire che l’incontinente si trova nelle stesse condizioni di costoro. E il pronunciare i discorsi tipici di chi ha scienza non è per nulla un segno attendibile: anche coloro che sono pazzi o ubriachi esprimono a parole dimostrazioni, e recitano versi di Empedocle (…). Di modo che si deve stimare che gli incontinenti si esprimono solo a parole, e agiscono come gli attori sulla scena (Aristotele, Etica Nicomachea, libro VII, capitolo 5, passo 1147a10-24)

Siccome l’ultima premessa è un’opinione sul sensibile e ha il dominio delle azioni, colui che si trova in quell’affezione o non la possiede, o la possiede in un modo tale che il possedere non è, come abbiamo detto prima, un sapere, ma è un esprimere a parole, a modo dell’ubriaco che recita versi di Empedocle (Aristotele, Etica Nicomachea, libro VII, capitolo 5, passo 1147b9-12)

E come coloro che recitano dicono versi di Omero, mascherandosi nel personaggio di Ettore o di Achille, ma non pensano quello che dicono, così anche gli incontinenti dicono questo, che commettere adulterio è male, ma in quanto sono oscurati da piaceri vergognosi non possono pensare a quanto dicono; e poiché non pensano quanto dicono, non è assurdo pensare che siano volti in un’altra direzione e agiscano come se ritenessero l’adulterio un bene (Anonimo, Commenti al libro VII dell’«Etica Nicomachea», p. 420.32-39; trad. mia)

Quelli che parlano emozionati usano appunto tali parole, per cui anche gli ascoltatori le accettano, evidentemente perché sono in una simile disposizione d’animo. Perciò esse appropriate anche alla poesia, essendo una forma d’invasamento (Aristotele, Retorica, libro III, passo 1408b17-19)

[La traduzione dei passi tratti dall’Etica Nicomachea sono di Carlo Natali (a cura di), Aristotele. Etica Nicomachea, Roma-Bari, Laterza, 1999. Quella dell’estratto della Retorica è di Armando Plebe, contenuta in Armando Plebe, Manara Valgimigli (a cura di), Aristotele. Retorica e Poetica, Roma-Bari, Laterza, 1992. Non esiste invece una traduzione in lingua moderna dell’anonimo commentario all’Etica Nicomachea, sicché il passaggio citato è tradotto di mio pugno]

Enrico Piergiacomi
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6 COMMENTS

  1. Sorprendente mi è constatare come forse mai sia esistito per gli attori un periodo d’oro, dove per “oro” s’intende semplicemente il normale riconoscimento di un’ attività per quel che è, con relativo naturale corollario di rispetto. (lungi da me pensare all’ammirazione!)
    Ma perché mai per parlar di vizi, storture ed abomini comportamentali si prende volentieri come esempio l’ attore e non, che so, l’ assessore, il falegname, il macellaio o il ragioniere?
    Cominciano a venirmi alcuni dubbi.
    Sebbene continui fermamente a pensare che chi disprezza gli attori meriti il disprezzo dell’universo,
    non sarà che avevano ragione quelli che ci seppellivano fuori dalle mura?
    Càpita a volte (per fortuna non così frequentemente) che un attore venga investito da violento irrispetto, disprezzo e arrogante prepotenza, soltanto per aver fatto il suo lavoro.
    Forse che questi campioni della quiete intellettiva vedono nell’attore il più pericoloso tra i portatori di anarcoide incontinenza?
    O costoro sono semplicemente seguaci di Aristotele?

    Un caro saluto

    C

  2. Caro Claudio,

    grazie infinite per il commento, che solleva una questione importante. A me pare che ad essa si possa dare sia una risposta benevola che una malevola, si intende verso i filosofi come Aristotele. (Al contrario di quella che – a quanto pare – costituisce la maggioranza, io rispetto e addirittura ammiro il lavoro degli attori, altrimenti non starei qua a scrivere questa rubrica, ma spenderei le mie energie a capire se esiste un motore immobile, o se ha ragione Democrito a supporre che il “caso” costituisce solo un vuoto nome).
    La risposta benevola è che i filosofi avvertono nel lavoro dell’attore qualcosa di “eccentrico”, che non si rileva in altre attività e professioni. Come hai tu stesso detto, l’artista – e in particolare l’artista performativo – è portatore di inquietudini, evocatore di paradossi (Diderot ha parlato di “paradosso” al singolare, ma a me sembra che tutta l’arte dell’attore sia paradossale), ideatore di linguaggi e intuizioni che non esprimono un pensiero misurabile del tutto con l’analisi discorsiva/razionale. Il suo stesso lavoro – mi pare – si sforza di non demandare tutto al controllo, alla formalizzazione e alla previsione, bensì lascia volutamente un ampio margine di “alea” e di sorpresa. Questo non significa ammettere l’esistenza di un’ispirazione o di un afflato divino. Più modestamente, è un modo forse goffo per dire che non tutto ciò che fa l’attore è frutto di tecnica, che per sua natura è l’insieme delle procedure necessarie e sufficienti per riprodurre sempre o perlopiù l’esito desiderato. Cosa sia questo “qualcosa”, ancora non lo so: Teatrosofia ha tra gli obiettivi impliciti di raggiungere auspicabilmente un giorno una minima chiarezza.
    Oggi mi limito a formulare un’ipotesi, che può anche servire a spezzare una lancia in favore della tesi di Aristotele che l’attore, entro certi limiti, non sa quello che fa. Tu ammetti che compito dell’attore è “evocare forze”. Ora, l’evocazione può essere del tutto consapevole, o del tutto inconsapevole, o in parte consapevole e in parte inconsapevole. Se è del tutto consapevole, è chiaro che tu sai anche che cosa stai evocando e quali sono le procedure adatte a tal fine. Ma ciò credo non avvenga. E’ probabile, infatti, che tu mi dica che proprio le volte in cui sei riuscito ad evocare qualcosa, non pensavi a questa stessa cosa che hai evocato e che ci sei arrivato in modi che magari nemmeno riesci a ricordare o a ricostruire completamente. Tuttavia, nemmeno il lavoro dell’attore è del tutto inconsapevole: concordiamo entrambi che l’attore possiede una tecnica, che si avvale del ritmo, del tono, ecc., quindi è consapevole di / sa fare qualcosa. Resta allora aperta solo la terza ipotesi, cioè che l’evocazione è in parte consapevole, perché puoi evocare una forza solo dentro un apparato formale che puoi promettere e riproporre ogni volta con (relativa) sicurezza, e in parte inconsapevole, perché arrivi ad evocare qualcosa che non conoscevi prima di evocarla e non sapevi di poterla evocare in quella data replica. Se ciò è vero, Aristotele ha in parte ragione: l’attore non “sa” cosa fa, quando entra in azione la componente non-tecnica del suo lavoro. Se mi passi il recupero della nota formula di Cusano, piegata però dal discorso teologico a quello estetico, possiamo considerare l’arte dell’attore una “dotta ignoranza”. Se non vuoi che usi le parole altrui, posso proporti la formula di “sapienza insipiente”.
    Invece, la risposta malevola è che Aristotele e altri soffrano del radicato pregiudizio della loro epoca, che tu hai brillantemente sintetizzato, quando parlano degli attori. Seppure molti di loro furono geniali, si trattano pur sempre di uomini deboli, mortali e che poco comprendono, procedendo spesso a tentoni e commettendo immancabilmente degli errori anche gravi. Il paragone dell’attore con chi soffre di uno stato psichico anormale è allora semplicemente frutto di ignoranza e di un difetto d’indagine.
    Se la risposta benevola alimenta il mio bisogno di affermare e definire, almeno per tentare di non lasciare tutto all’oscurità, quella malevola nutre la mia tendenza allo scetticismo. L’una mi dà speranza che un giorno potremo capire qualcosa e che, delle volte, ci avviciniamo a una proposta risolutiva. L’altra mi intima a pensare che, non importa quanto sia sia intelligenti, non si riuscirà mai ad esaurire la realtà (ammesso, ma non concesso, che ne esista una). In tutto quello diciamo c’è sempre qualcosa di sbagliato, o che può essere rimesso in discussione.
    Spero di aver detto qualcosa di utile. Un abbraccio,

    Enrico.

  3. Beh non credo che Aristotele cercasse di condurre il lettore verso il disprezzo dell’attore. L’attore è vero che va in uno stato alterato durante il suo lavoro tanto che in alcuni paesi è vietato guidare dopo aver fatto uno spettacolo. Ad ogni modo essere attore implica l’attenzione del pubblico e perciò si diventa facile preda di giudizi e riferimenti. mi verrebbe da chiedere quanto c’è di effettivamente simile tra l’attore aristotelico e quello moderno e forse una volta chiarita questa differenza mi verrebbe più facile schierarmi o semplicemente accordarmi all’uno o all’altro.

    Grazie, questa rubrica è bellissima

    Luca

  4. Caro Luca,

    grazie per l’apprezzamento e l’ulteriore stimolo. Sul primo punto: gli appuntamenti successivi mostreranno, spero, che ci sono dei riferimenti positivi nella “Poetica” e nella “Politica”. Dunque, sono d’accordo con te. Quando presentavo anche una risposta malevola alla questione di Claudio, era per non escludere la possibilità del peso di un pregiudizio su Aristotele.
    Quanto al secondo punto, non posso risponderti subito su cosa sia un attore aristotelico e ti rimando al prossimo appuntamento. Lì si esaminano brevemente alcuni passi della “Retorica”, dove si parla dell’elocuzione e si legge qualche indicazione su come Aristotele distinguesse il “recitare” dal “fare un discorso”. Non penso di poter dare comunque un’esposizione ampia e risolutiva, ma almeno poniamo qualche premessa.
    Di nuovo grazie! E a presto,

    Enrico.

  5. Per Enrico:
    è questione difficile.
    Posso dire che il cosiddetto “stato di grazia” lo si incontra per caso, ma la possibilità di un suo (seppur limitatissimo) prolungamento nel tempo è questione di tecnica.
    Per Luca:
    è questione ancor più difficile.
    Chi può saperlo? Rispetto al poco che si conosce forse si può dire che gli attori di quel tempo potevano privilegiare ben poco il rapporto “personale” con lo spettatore. Avevano piuttosto un pubblico ed erano parte di una “apoblepia” (così mi sono divertito a definire “una cosa da guardare da lontano”), dunque più che altro facevano spettacolo.
    Comunque… sono davvero interessato al motore immobile…
    CM

  6. Caro Claudio,

    un proverbio greco dice “le cose belle sono difficili”. Questo solo per dire che capisco che le questioni sollevate sono complicate. Quanto al rapporto “stato di grazia” e tecnica, sfondi la classica porta aperta. Anch’io do la preminenza alla seconda: senza di questa, non si può verificare la prima. O meglio, senza tecnica, anche in caso di “stato di grazia”, non lo si saprà né riconoscere, né rendere efficace.
    Invece, sono assolutamente d’accordo con l’osservazione che hai fatto a Luca. Ci devo riflettere su, però. Un caro saluto,

    Enrico.

    PS: non mi tentare sul motore immobile, il libro VIII della “Fisica” e il libro XII della “Metafisica” (entrambi di Aristotele) sono sul mio comodino da mesi.

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