Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento parliamo del Filebo e della vita buona nella sfera privata.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
L’ambizioso progetto politico della Repubblica rimase purtroppo incompiuto nella pratica. I vari tentativi di attuazione che Platone svolse negli anni successivi alla scrittura del testo si riveleranno fallimentari, tra cui quello di convertire il tiranno Dionisio di Siracusa alla filosofia, facendo di lui la concreta realizzazione della figura del filosofo-re che aveva vagheggiato in un importante passo del libro VI.
A causa di questo fallimento, la riflessione platonica ripiegherà in posizioni morali e politiche più modeste. La sua tarda produzione comprende la stesura del Filebo, che non elabora come la Repubblica un grandioso progetto di riforma sociale, ma si preoccupa di definire la vita buona nella sfera privata. Nel passo 48a-50b del dialogo, si riscontra l’ultimo e più compiuto confronto di Platone con il teatro, che è svolto con lo scopo di dimostrare l’esistenza di alcuni piaceri misti a dolori.
È impossibile spiegare in poche battute tutti i dettagli del fine ragionamento platonico. Per seguirlo anche solo superficialmente, occorre dare in ogni caso per assodata un’importante premessa: piacere e dolore sono affezioni determinate da un’attività cognitiva. Ciò significa che per il Platone del Filebo un’esperienza piacevole o dolorosa trova la sua causa nella mente che, ad esempio, fa desiderare un oggetto assente, o ricordare di averlo ottenuto in passato, o sperare di conseguirlo di nuovo in futuro. Ora, la sovrapposizione di queste diverse attività mentali può portare piacere e dolore a mescolarsi insieme. Si pensi a tal proposito al fenomeno della fame. Sul piano cognitivo, essa è un’esperienza al tempo stesso piacevole, perché si prova piacere nello sperare di assumere presto del cibo e nel ricordare di averlo assaggiato in passato, e dolorosa, visto che la mente fa avvertire un vuoto nel corpo e innesca un penoso desiderio di riempirsi.
Tenendo ciò in mente, si può vedere il passo 48a-50b. Il personaggio di Socrate mostra al suo interlocutore Protarco la mescolanza di piacere e dolore esaminando le passioni destate dagli spettacoli teatrali. Egli si richiama anzitutto alla tragedia, dichiarando come un fatto evidente che lo spettatore gode nel piangere (i.e., nel soffrire) per le sventure cui incorrono i personaggi del dramma. Dopodiché, Socrate si concentra molto dettagliatamente sulla commedia, mostrando con un discorso non sempre trasparente che essa mette in scena la vicenda di un personaggio specifico: la caduta in disgrazia di una persona amica che prima si riteneva erroneamente detentrice di un bene invidiabile, causata da un evento da cui ella non si può difendere e che svela la sua pochezza. Quando si assiste a un accadimento del genere, si avverte una mescolanza di piacere e dolore. Infatti, si prova pena, perché si invidia il personaggio che dice di possedere un grande bene, e insieme godimento, visto che si ride nello scoprire che egli non ha affatto quel bene e nel vederlo reagire impotente all’incidente che lo fa cadere in disgrazia. La mescolanza è causata, in altri termini, da due sovrapposte operazioni cognitive: da un lato, la dolorosa credenza che il personaggio ha qualcosa in più di noi, dall’altro il riconoscimento che egli è in realtà debole e meschino, come o più di noi.
Platone non fornisce un esempio di questo discorso molto astratto, forse perché dava per assodato che i suoi lettori contemporanei conoscessero gli spettacoli comici di cui parla. Si potrebbe tuttavia fornire il caso classico del soldato fanfarone. Questi si gloria di aver conseguito una grande onorificenza, vincendo disarmato un intero esercito nemico, e provoca così nello spettatore l’invidia per la mancanza di questo bene. Nel momento in cui successivamente il soldato fanfarone viene smascherato (poniamo, rappresentandolo mentre fugge in mutande dal marito di una donna che ha sedotto), il dolore viene però “annacquato” dal riso e chi assiste allo spettacolo scopre con piacere che il personaggio aveva finora detto il falso.
Ma come mai Platone si sforza così tanto di dimostrare l’esistenza della mescolanza di piacere e dolore, a partire dagli spettacoli teatrali? Due sono le risposte possibili. La prima è che Platone vuole negare che si possa conseguire la vita buona ricercata nel Filebo frequentando il teatro. Chi assiste a quest’ultimo non trae del resto mai il piacere puro che, come leggiamo verso la fine del dialogo, costituisce una delle componenti fondamentali del bene ed è garantito, ad esempio, dallo studio della geometria o dalla scienza. Stando a tale interpretazione, il confronto platonico con la tragedia e la commedia avrebbe una finalità epistemologica. Il compito che si propone è, infatti, definire una componente del vero bene (= il piacere puro) in opposizione a un falso bene, quale è il piacere misto a dolore che si ricava dagli spettacoli tragici e comici.
La seconda ipotesi – forse sottile, certamente assai cupa – è che Platone si richiama al teatro per presentare una tesi morale. Poco prima di concludere il suo ragionamento, il Socrate del Filebo accenna al fatto che la mescolanza di piacere e dolore non si riscontra solo nelle tragedie / nelle commedie che hanno luogo sulla scena: la si ritrova «anche in tutta la tragedia e la commedia della vita». Egli sta così affermando che l’esistenza umana è in sé un grande palcoscenico, dove si assiste di continuo ad avvenimenti luttuosi e tragici, oppure a persone ritenute erroneamente invidiabili che cadono in disgrazia e svelano la loro pochezza. Ognuno recita, per così dire, provocando negli altri due possibili mescolanze di piacere e dolore nella vita: quella tragica, che fa piangere nel mentre si gode, e quella comica, che fa ridere nel mentre si soffre.
Questa rappresentazione implicita della condizione umana sarà resa esplicita nel libro I delle Leggi, in cui l’uomo è paragonato a una marionetta o macchina prodigiosa costruita per divertire gli dèi. E come riporterà più oltre il libro VII della stessa opera, l’obiettivo di ogni uomo non sarà quello di sottrarsi alla recita, ma di recitare nel modo che risulta più gradito alla divinità. Ma questo non comprende né l’interpretazione del personaggio tragico, né di quello comico, bensì dell’uomo che si lascia trascinare dalla “corda d’oro” della ragione, rappresentata dall’obbedienza alle leggi dello Stato rivelate dal dio. Il miglior attore idealizzato dal Platone degli ultimi dialoghi è colui che si lascia deliberatamente asservire alla tremenda coercizione del potere.
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socrate: E ricordi anche gli spettacoli tragici, quando si piange provando nello stesso tempo godimento?
protarco: E come no?
socrate: E la disposizione della nostra anima alle commedie, non pensi rifletta anche questa mescolanza di dolore e di piacere?
protarco: Non capisco.
socrate: Certo: non è assolutamente facile, Protarco, comprendere la disposizione dell’anima che si verifica di volta in volta in questo caso.
protarco: In effetti non mi sembra facile.
socrate: Vediamo di capire il concetto con uno sforzo tanto maggiore quanto più l’argomento è oscuro, perché anche nel resto si riesca più facilmente a comprendere l’unione di piacere e dolore.
protarco: Puoi parlare.
socrate: Il nome “invidia” pronunciato poco fa lo considererai tra i dolori dell’anima o che cosa?
protarco: Proprio così .
socrate: Ma colui che è invidioso mostrerà di godere dei mali dei suoi vicini.
protarco: Certamente.
socrate: L’ignoranza e quella condizione che definiamo stoltezza sono un male.
protarco: E allora?
socrate: E da queste cose eccoti sotto gli occhi quale sia la natura di ciò che è ridicolo.
protarco: Dimmi pure tu.
socrate: Il punto principale della questione consiste in una certa forma di malvagità che prende il nome da una condizione degli uomini: si tratta di una condizione che riguarda la malvagità nel suo complesso e che è opposta alle parole scritte a Delfi.
protarco: Alludi al «conosci te stesso», Socrate?
socrate: Sì. È chiaro che l’opposto di quella massima sarebbe: «non conoscere minimamente te stesso».
protarco: E allora?
socrate: Protarco, prova a dividere questa massima in tre parti.
protarco: Come dici? Non penso di essere capace.
socrate: Dici che devo essere io a dividerla adesso?
protarco: Sì, lo dico e oltre a dirlo anche ti prego.
socrate: E non è forse inevitabile che ciascuno di quelli che ignorano se stessi viva questa condizione sotto tre aspetti diversi?
protarco: E come?
socrate: Il primo aspetto riguarda le ricchezze: credere di essere più ricchi di quanto non sia in effetti il loro patrimonio.
protarco: Sono molti, infatti, quelli che vivono in tale condizione.
socrate: E molti di più quelli che pensano di essere più grandi e più belli, quanto a prestanza fisica, di quanto non siano in realtà.
protarco: Certamente.
socrate: Ancora più numerosi, credo, sono quelli che falliscono per quanto riguarda il terzo aspetto, quello dell’anima, pensando di essere superiori per valore, quando in realtà non lo sono.
protarco: è assolutamente così .
socrate: Non è forse appoggiandosi del tutto, fra le virtù, alla sapienza che la maggior parte di persone si riempie di desideri di contese e di un falso apparire sapienti?
protarco: E come no?
socrate: E se qualcuno dicesse che tale condizione in cui ci si viene a trovare è tutto sommato un male, direbbe bene.
protarco: Certamente.
socrate: Questo, Protarco, dobbiamo ancora dividere, se, osservando l’invidia da un punto di vista puerile, ci accingiamo a vedere una insolita mescolanza di piacere e dolore. «Come faremo a dividere?», tu dici. Quanto a tutti quelli che hanno sconsideratamente di sé stessi questa opinione fallace, è inevitabile che anche a costoro come a tutti gli uomini si accompagnino loro ad alcuni forza e potere, ad altri, io credo, il contrario.
protarco: Sì, è inevitabile.
socrate: Allora dividi così : quelli deboli e incapaci di difendersi se sono ridicolizzati, dirai la verità se dici che sono ridicoli. Quelli invece in grado di difendersi e dotati di forza, dicendo che sono terribili e odiosi ne avrai fornito a te stesso una corretta definizione. L’ignoranza dei forti è infatti odiosa e turpe – ed è dannosa per chi si trova vicino, sia così com’è, sia sotto le varie forme in cui essa si manifesta – mentre quella dei deboli assume le caratteristiche e la natura del ridicolo.
protarco: Quello che dici è giustissimo. Ma in questo discorso non mi risulta ancora chiara la mescolanza di piacere e dolore.
socrate: Cerca di capire innanzitutto qual è il potere dell’invidia.
protarco: Parla pure.
socrate: Vi sono un dolore e un piacere ingiusti?
protarco: È inevitabile che accada.
socrate: E il godere delle sventure dei nemici non è ingiusto né invidioso. O no?
protarco: E allora?
socrate: Mentre non è forse ingiusto vedere le sventure degli amici e non soffrire, anzi, addirittura godere?
protarco: E come no?
socrate: E non s’è detto che l’ignoranza è un male per tutti?
protarco: Giustamente.
socrate: E a proposito della falsa sapienza e della falsa bellezza degli amici e di tutto quanto ora abbiamo trattato quando abbiamo detto di dividerli in tre specie, e a proposito di quanto siano ridicole nei deboli e detestabili nei forti, diciamo o no ciò che dicevamo poco fa, e cioè che, qualora uno degli amici si trovi in tale condizione e non faccia danno agli altri, sia ridicolo?
protarco: Certamente.
socrate: E non riteniamo che questa condizione, essendo ignoranza, sia un male?
protarco: Certamente.
socrate: Proviamo gioia o dolore quando ridiamo di quella?
protarco: È chiaro che proviamo gioia.
socrate: Non dicevamo che è l’invidia che procura piacere per i mali degli amici?
protarco: Inevitabilmente.
socrate: Il discorso indica che, ridendo dei casi ridicoli degli amici, e mescolando così piacere ad invidia, noi uniamo piacere a dolore: e già prima riconoscemmo che l’invidia è come un dolore dell’anima, mentre il ridere è una sorta di piacere, e che i due fatti avvengono contemporaneamente in quest’ultima circostanza.
protarco: Vero.
socrate: Ora il discorso ci indica che nei lutti e nelle tragedie e nelle commedie, e non solo nelle rappresentazioni teatrali, ma anche in tutta la tragedia e la commedia della vita, dolori e piaceri sono mescolati insieme, e così in molte altre cose (Filebo 48a-50b)
socrate: Dirai in ogni luogo, Protarco, facendolo dire dai messi e spiegandolo ai presenti, che il piacere non è il possesso che si deve conseguire per primo e nemmeno per secondo, ma che il primo bene consiste nella misura, nella proporzione, nell’opportunità, e in tutto quanto bisogna ritenere che sia simile a questo e abbia assunto la natura dell’eterno.
protarco: Mi sembra sia così, secondo quanto detto ora.
socrate: Il secondo riguarda proporzione, bellezza, perfezione, sufficienza e tutto quanto appartiene a questo genere.
protarco: È verosimile.
socrate: E come terzo, secondo la mia congettura, se considererai la mente e l’intelligenza, non ti allontanerai molto dalla verità.
protarco: Può darsi.
socrate: E quarti non sono le cose che abbiamo stabilito appartenessero all’anima stessa, ovvero le scienze, le arti, le opinioni che vengono definite giuste, e che sono al quarto posto dopo quelle tre, se è vero che sono più affini al bene che al piacere?
protarco: Può darsi.
socrate: E come quinti non abbiamo considerato i piaceri che abbiamo definito non dolorosi, e che, essendo puri, attribuimmo all’anima stessa, seguendo gli uni le scienze, gli altri le sensazioni?
protarco: Forse.
socrate: «Alla sesta stirpe», dice Orfeo, «fate cessare l’ordine del canto». Può darsi che anche il nostro discorso sia cessato alla sesta sentenza (Filebo 66a-c)
Riflettiamo allora in questo modo su tali cose. Dobbiamo pensare che ciascuno di noi, esseri viventi, è come una macchina prodigiosa realizzata dagli dèi, vuoi per loro divertimento, vuoi per uno scopo serio; questo non lo sappiamo. Ciò che invece sappiamo è che queste passioni, che sono in noi come corde o funicelle, ci tirano, ed essendo opposte fra loro, ci tirano in senso contrario, trascinandoci verso azioni opposte, ed è così che si stabilisce la differenza fra la virtù e il vizio. La ragione ci consiglia di seguire sempre uno solo di questi stimoli, di non abbandonarlo affatto, e di resistere a tutti gli altri fili: questa è la regola d’oro della ragione, quella sacra condotta che viene chiamata la pubblica legge dello stato, e se le altre sono dure come fossero di ferro e assumono le forme più svariate, questa è duttile, perché è d’oro. Bisogna collaborare sempre con la splendida guida della legge: poiché la ragione è bella, mite, e priva di violenza, la sua guida ha bisogno di collaboratori affinché in noi la stirpe d’oro vinca sulle altre stirpi. E così il mito della virtù, secondo cui noi siamo come macchine prodigiose, verrà salvaguardato, e in un certo senso comprenderemo più chiaramente il senso dell’espressione: «essere superiori o inferiori a se stessi». E per quanto riguarda lo stato e il privato cittadino, bisogna che il privato cittadino accolga dentro di sé la vera ragion d’essere di questi stimoli e ad essa conformi la propria vita, mentre lo stato, ricevendo da un dio o da quel cittadino che abbia conosciuto tale ragione, deve stabilirla come legge sia nelle relazioni con se stesso, sia in quelle con gli altri stati. Così avremo distinto più chiaramente il vizio e la virtù: e chiariti questi concetti, anche l’educazione e tutte le altre usanze saranno forse più evidenti, e addirittura la questione riguardante i simposi (Leggi, libro I, 644e-645c)
Le stesse cose dovranno pensare i nostri allievi, e dovranno ritenere che quanto è stato detto è sufficiente, e che quel che manca intorno ai sacrifici e alle danze sarà loro suggerito da un demone o da un dio: essi suggeriranno cioè a quali divinità bisogna fare sacrifici, e quando ciascuno deve essere celebrato, e quali renderanno propizi, in modo da poter vivere conformemente alla natura umana, essendo per lo più come delle marionette, e partecipando in piccola parte della verità (Leggi VII, 804a-b)
[Le traduzioni del Filebo e delle Leggi sono di Enrico Pegone. Le traggo rispettivamente dai voll. 2 e 5 di Enrico V. Maltese (a cura di), Platone. Tutte le opere, 5 voll., Milano, Newton & Compton, 1997]Enrico Piergiacomi
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