Atlante XLVII – Ipercorpo 2015 per il terzo anno dedicato a Italian Performance Platform
Dal produttore al consumatore. Quel che lega l’industria e il commercio è una linea virtuosa che in genere chiamiamo con il termine “filiera”. Si intende quel processo che permette a chi produce di ideare e comporre sulla base di una domanda statistica, in virtù della quale si confeziona il prodotto e si rende fruibile, acquistabile, da intermediari che lo porteranno in distribuzione, finché tale prodotto non raggiunga la vendita al dettaglio e, dunque, l’utilizzatore finale: il consumatore, insomma, l’uomo che ne denunci desiderio e necessità. Nel mondo delle arti sceniche un simile processo è fuori da ogni pensiero: in primo luogo e fortunatamente per il fatto che il prodotto non ha a che vedere con la serialità, poi perché le economie di sostegno non hanno la consistenza di mettere in campo un vero sistema produttivo, in ultimo ma forse più emergente è che in questo settore manca una richiesta effettiva e, quindi, siamo ancor prima anche di una tentata vendita, siamo nel campo del superfluo della comunità generato però da una forte esigenza dell’individuo.
Eppure ci sono luoghi come Forlì dove da dieci anni si fa il Festival Ipercorpo, che da tre edizioni ospita nel cuore delle sue attività l’Italian Performance Platform, una due giorni di incontri tra operatori internazionali e un drappello di artisti cui è messa a disposizione la possibilità di proporre il proprio lavoro oltre confine.
Non serve un occhio allenato per accorgersi che questo è a tutti gli effetti un esempio virtuoso di buona gestione culturale, capace di creare necessità su diversi piani, di promuovere una circuitazione mai così bassa già nello stesso nostro paese (dopo la riforma ministeriale ancora più a rischio) e di assicurare un ascolto vitale di confronto per artisti avvinti a una natura di protezione verso la propria opera. Ma, se questo è appunto un esempio virtuoso, perché non pone un modello per simili attività in altri territori, anche con un sostegno di risorse pubbliche?
C’è da dire in principio che questo festival, curato dal direttore Claudio Angelini e dalla sua compagnia Città di Ebla, poggia le sue basi originarie su un movimento del tutto indipendente, allo stesso modo ha proseguito negli anni seguendo un progetto di valorizzazione della città, della sperimentazione artistica, della condivisione in angoli afflitti da una mancata cura, cui l’arte può concedere davvero una nuova imprevista vita; è stato il caso, ad esempio, dell’EX Deposito ATR che ha ospitato tre edizioni e quest’anno ha dovuto lasciare il posto alla Fabbrica delle Candele, affinché fossero fatti lavori di ammodernamento che forse proprio la presenza di questa attenzione dell’ambiente artistico ha fatto emergere con urgenza. Se dunque un movimento indipendente si caratterizza per provenire da un’origine comunitaria, basata sulla reciprocità dei rapporti e sul contatto diretto e umano come esperienza prioritaria di evoluzione culturale, è proprio su tali fondamenta che forse un lavoro di scambio riesce con maggiore facilità, là dove l’istituzionalizzazione delle attività può rendere più farraginosa una relazione in ogni caso mossa da sensibilità, emozione, gusto, tutte espressioni dall’uso delicato e per le quali c’è bisogno dell’ambiente adatto.
In secondo luogo bisogna avere una forte sponda estera che in questo caso è ben interpretata da Mara Serina, vero motore di relazioni internazionali in seno anche al festival torinese Teatro a Corte; la sua qualità si misura ancora con una scelta sensibile, che si direbbe quasi artistica: nella ricerca degli operatori da coinvolgere è fondamentale un pensiero volto all’incontro, prima ancora che questo avvenga; pertanto sarebbe un errore parlare di “operatori stranieri”, bisogna parlare di rappresentanti di esperienze artistiche di varia natura e vocazione che possano trovare nella Platform un terreno di confronto, ossia artisti italiani che vanno nella loro stessa direzione. Ciò è fondamentale e può essere realizzato soltanto conoscendo bene sia chi si va a coinvolgere sia gli artisti da presentare. Ecco allora che lo spazio di reciproco racconto è di per sé nobile e permette ciò che in altri contesti sarebbe molto più difficile.
Ma, se così semplici gli ingredienti, quale è il motivo di tale difficoltà? In Italia, dove si è arenato il grande impianto di Vertigine nel 2010 a Roma e dove continua NID Platform per la sola danza, la grande urgenza è la mancanza di istituzioni che nascano dal basso e quindi dalla necessità immediata, le nostre istituzioni sono sovrastrutture di potere in cui quest’ultimo è, oltre che azione capace di definire e determinare le buone pratiche culturali, di per sé stesso struttura sovrastante di cui l’uomo deve restare reggente, ancor peggio, ingranaggio, incapace di modificare le intenzioni e la gittata. Anche quando ci sono esperienze che reclamano questa mancanza, è lo stesso potere a sentirsi minacciato e ad accompagnarle verso la dismissione, come nel caso del Teatro Valle Occupato (chiaro, in questa intervista). Pertanto se questo Ipercorpo ha preso il nome di Presidio, in virtù della volontà di essere vivi in un territorio da rendere vivo di noi, il vero presidio è molto più grande ed è, da qui in poi, il mondo che siamo, che non rappresentiamo, che non abbandoneremo in vecchi depositi di un precedente abbandono.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Leggi anche Lorenzo Donati su Altre Velocità