Dopo una florida tournée, lo spettacolo del Leone d’Oro Christoph Marthaler arriva a Prato. Recensione
È sufficiente gettare uno sguardo ad alcune tappe della lunga tournée europea per comprendere come l’ultima creazione di Christoph Marthaler sia uno spettacolo anomalo: dopo il debutto italiano al Festival di Spoleto nel luglio 2014 — dove era inserito nella sezione dedicata alla musica — ha toccato un tempio mondiale della lirica qual è la Royal Opera House di Londra, per poi chiudere poche settimane fa la stagione del Teatro Fabbricone di Prato. Si potrebbe sostenere che King Size – Variazioni enarmoniche, in questo suo dividersi equamente tra le più blasonate istituzioni musicali classiche e i palcoscenici dedicati al teatro contemporaneo, rappresenti uno dei tanti esempi attuali di ibridazione tra linguaggi: eppure, in un’ipotetica cartografia delle arti sceniche, non riusciremmo a posizionarlo con facilità in una di quelle zone di confine nelle quali hanno spesso origine meticciati estetici. Il teatro del regista svizzero — che ad agosto verrà insignito del Leone d’oro alla carriera dalla Biennale Teatro 2015 — non costituisce soltanto una fusione tra sintassi artistiche differenti, bensì una più complessa operazione di destrutturazione di un genere codificato, del quale si mantengono i canoni stilistici pur svuotandolo dei tradizionali significati. Le attribuzioni di senso risultano anzi operazioni fallimentari, se applicate a questo brillante divertissement, il cui carattere filosofico è destinato a detonare in un susseguirsi di soluzioni sceniche forse fin troppo illimitato e fine a se stesso.
Sono le stesse note di regia ad ascrivere King Size alla forma scenica della Liederabend: termine che, nel periodo aureo del Romanticismo tedesco, indicava una “serata di canzoni”, una particolare tipologia di evento musicale durante il quale, in un ambiente informale e non ufficiale, venivano intonati celebri Lieder col solo accompagnamento del pianoforte. Marthaler — che si avvale di un eccellente cast i cui membri vantano esperienze non soltanto come attori, ma anche come cantanti d’opera o jazz — rispetta pienamente questa formula, limitando a poche battute lo spazio concesso al parlato e lasciando affiorare una linea drammaturgica soltanto grazie ai brani di Schumann o Satie, eseguiti dal vivo sulle note di un pianoforte posto alla sinistra del palco. E tuttavia è proprio nelle scelte musicali che l’estro dissacrante di Marthaler agisce primariamente: perché tra le reminiscenze classiche e colte si insinuano le suggestioni squisitamente pop dei Jackson 5 o quelle retrò di Al Jolson, in una mescolanza ironica e beffarda ma mai caotica. Ad accomunare le arie sono in primo luogo affinità contenutistiche: ciò che ascoltiamo è una surreale antologia della canzone d’amore tra Ottocento e anni Settanta del secolo scorso, un folle mash-up nel quale l’insistenza melensa e banalizzante sulla dolcezza del sentimento, sulla bellezza del creato o sull’impossibilità di vivere senza l’amata sortisce un effetto grottesco.
L’esile trama acuisce in una bislacca girandola di nonsense una sensazione di straniamento: attorno al letto cui fa riferimento il titolo, posto al centro di una camera d’albergo arredata con gusto kitsch e tinte pastello (le meravigliose scene sono di Duri Bischoff) si muovono due uomini e due donne, le cui azioni peraltro non costruiscono una vicenda logica, e le cui relazioni risultano indefinite. Gli spettatori osservano così un uomo dormire tra lenzuola turchesi, lo ascoltano poi cantare al risveglio un Lied sul sole e sulla sua “orbita dorata”, infine lo vedono — in un gesto che è anche una rottura di qualsiasi grammatica teatrale — uscire dalla scena delimitata della camera e sedersi al pianoforte ad accennare le note di I Go to Sleep dei Kinks. La canzone accompagna l’ingresso di un’improbabile coppia di camerieri, che subito dopo aver sistemato il letto si spoglia degli abiti da lavoro per infilarsi tra le coperte, mentre una non più giovane signora — unico personaggio a non ricorrere al canto — attraversa la scena da quinta a quinta, legge una filastrocca o mangia gli spaghetti che ha in borsa. Spetta a lei, in un crescendo di situazioni assurde e dalle chiare ascendenze dadaiste, riflettere tra sé e sé sulle difficoltà connaturate al processo di autoidentificazione, o su quell’improvvisa perdita di senso del reale che la porta ad esclamare quanto sia «difficile capirci qualcosa».
L’atmosfera da cabaret e l’insistenza su alcuni triti meccanismi tipici del varietà — la gag sul minibar posto talmente in alto da risultare pressoché impossibile da raggiungere, o i frequenti siparietti durante i quali le canzoni sono interpretate mentre si è nascosti dentro un armadio, o addirittura sotto il letto — sembrano infatti celare una personalissima e acuta riflessione sul tema dell’identità e del tempo, e su come questi spesso confliggano determinando conseguenze imprevedibili. Il sottotitolo Variazioni enarmoniche, accennando alla tecnica di composizione musicale che consente di scrivere un identico suono attraverso due diverse notazioni, suggerisce di conseguenza un’interpretazione dell’accadimento scenico nella quale l’anziana signora e l’affascinante mezzo-soprano sono in realtà la stessa persona osservata in momenti diversi della vita. Marthaler tuttavia sembra burlarsi di qualsiasi ermeneutica, delle convenzioni sociali e forse anche di quelle teatrali: l’esistente si confonde così con il sognato, un calzascarpe può essere usato come forchetta, e gli interrogativi critici restano senza risposta.
Alessandro Iachino
visto al Teatro Fabbricone, Prato, aprile 2015
KING SIZE
Variazioni enarmoniche
una Liederabend di Tora Augestad, Duri Bischoff, Bendix Dethleffsen, Michael von der Heide, Christoph Marthaler, Sarah Schittek, Malte Ubenauf e Nikola Weisse
con Tora Augestad, Bendix Dethleffsen, Michael von der Heide, Nikola Weisse
regia Christoph Marthaler
direzione musicale Bendix Dethleffsen
scenografia Duri Bischoff
costumi Sarah Schittek
luci HeidVoegelinLights
drammaturgia Malte Ubenauf
produzione Theater Basel Svizzera
con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura