Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento ci dedichiamo a Anacreonte e alle sue riflessioni relative all’arte come rimedio alla vecchiaia.
In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.
Riposiamoci dalla fatica dell’indagine concettuale sull’attore con un breve intermezzo su Anacreonte. I frammenti della sua opera esaltano, con parole vigorose e sincere, la gioia che il canto e la danza possono dare alla vita umana, nonché promettono che le due attività favoriranno l’amore sensuale tra uomini e donne, altrimenti frenato da paure e ritrosie. Tramite Anacreonte, insomma, non si apprende nulla sulle finalità del lavoro artistico, ma si riporta alla memoria una banale ma importante ragione che ci spinge a praticare le arti, anche nei tempi attuali che ne scoraggiano ampiamente la pratica. Danza e canto (a cui potremmo aggiungere il teatro) ci fanno sentire vivi, migliorano le relazioni tra persone, e agevolano il raggiungimento di piaceri intensi, come quelli del letto.
Ma Anacreonte non è solo il poeta della gioia. È anche lo sconsolato cantore della vecchiaia, che lamenta come l’arrivo di questa farà tremolare i denti e cancellerà la giovinezza, obbedendo alla quale ragazzi e fanciulle si abbandonano alla danza, accompagnati dalle melodie del flauto. Riportato sul piano delle arti, Anacreonte è dunque anche colui che articola un memento mori, attraverso il quale invita a dedicarsi, finché si può, al canto e alla danza. Sciogli la lingua e batti a ritmo, ci dice con un nodo alla gola: poiché presto la bocca sarà arida polvere, mentre i piedi nudi che calcano la terra scottata dal sole diventeranno ossa fredde e adunche.
Lo stato frammentario dei testi e le scarse notizie di cui disponiamo non ci consentono di sapere se questi due atteggiamenti appartengono a due fasi diverse della produzione poetica e biografica di Anacreonte, oppure se convivano insieme, dunque che i suoi versi esaltino nello stesso tempo le gioie della giovinezza e la loro inevitabile fine. Trovandoci nel regno dell’inverificabile, preferiamo allora articolare una terza, fantasiosa ipotesi. Anacreonte non parla dell’arrivo di una vecchiaia materiale, ma di una spirituale. Egli non descrive se stesso, ma dà voce – senza condividerne il comportamento – all’uomo che, ammettendo di essere invecchiato, smette di cantare e danzare insieme alla gioventù, per aspettare rassegnato la discesa nel Tartaro.
Anacreonte si rivolge, del resto, in un famoso componimento (fr. 78) a una fanciulla tracia, dicendole di non considerarlo un cattivo amatore. Anche se non ne possiamo essere sicuri, non è da escludere che questo sia il canto di un amante anziano ingiustamente disprezzato, che vuole dimostrare alla ragazza di poterla soddisfare quanto, se non meglio, di un suo coetaneo. Se questo è vero, Anacreonte non starebbe dicendo altro che, pur avanti negli anni, egli ha il vigore di un giovane. E lo stesso discorso potrebbe valere così anche per il canto e la danza. Per chi vuole, secondo lui, la gioia e la giovinezza si mantengono fino all’ultimo istante di vita. Chi non rimugina sul fatto che questa stia per finire avrà un’anima giovane in un corpo logorato sì dagli anni, ma con forze sempre sufficienti per schioccare la lingua e battere a ritmo la terra.
Il monito ulteriore di Anacreonte è, allora, che non esiste la vecchiaia: esiste solo la giovinezza, che gli uomini e le donne che hanno accumulato molti anni di vita dimenticano di avere, ingannati da alcuni segnali del corpo. Questi ultimi indicano infatti solo che la morte arriverà presto, ma non che è arrivato il momento di smettere di cantare, danzare e godere. Alla vista del Tartaro, l’uomo avveduto e la donna saggia non si sentono atterriti, ma volteggiano leggeri a ridosso dell’abisso.
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Son già grigie le mie tempie, / tutta bianca è la mia testa / e già tremoli i miei denti, / non amabil giovinezza più m’arride, / della dolce vita ancora / lungo tempo non m’avanza. / Onde il Tartaro pavento e singhiozzo; / ché terribile è degl’Inferi il recesso / e funesta la discesa: è destino / che giù scese non torni più (fr. 36)
Non mi è caro chi presso al cratere ricolmo bevendo / narra i tumulti le risse le lagrimose guerre, / ma solo chi d’Afrodite e delle Muse insieme / i bei doni associando canta l’amabile gioia (fr. 56)
Perché mai, trace puledra, tu mi guardi di traverso, / e spietata tu mi fuggi, quasi io fossi buono a nulla? / Sappi, con destrezza, ti saprei gittare il morso / e, le redini in pugno, farti girare la meta. / Ora pascoli nei prati, giuochi, saltelli leggera; / un esperto cavaliere non ancora ti cavalca (fr. 78)
Chi piegando l’animo / alla gioia dell’amata giovinezza / danza al folle suono / degli auli esigui? (fr. 95)
[La traduzione dei frammenti di Anacreonte è presa da Bruno Gentili (a cura di), Anacreonte, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1958. Ringrazio Viviana Raciti per avermi ispirato un bel momento di digressione]Enrico Piergiacomi
Twitter @Democriteo
Forse una delle accezioni possibili dell’ elemento “teatrico” (ma i lavori sono in corso ed il mare è alto!) potrebbe essere “cercare il silenzio in vita ed il canto in morte” (?).
C.M.
Caro Claudio,
è curioso leggere quanto scrivi, poiché anch’io mi sto ponendo proprio in questi giorni un problema analogo (probabilmente, dipende dalla scelta comune di discutere sul concetto di “ritmo”). A istinto, mi viene da risponderti affermativamente, proponendo però una sintesi dialettica tra i termini della questione: “teatrico” implica forse la ricerca del canto non nella morte, né nella vita, ma nella vita morente. Del resto, nei rari momenti in cui ci sentiamo davvero vivi, poco ci tange la ricerca artistica e intellettuale; mentre l’approssimarsi della morte nell’istante finale annienta, a mio avviso, ogni proposito, compreso quello più eroico e alto. La mia ipotesi è, allora, che l’arte e l’indagine razionale servono a riscattare un corso vitale che si sta arrestando, o che è impedito da qualcosa.
In ogni caso, hai sicuramente ragione: siamo ancora in alto mare, ma non dispero che un giorno si riesca a giungere a un pensiero chiaro e distinto. Un abbraccio,
Enrico.