La piccola maratona dei tre capitoli di Milk di Mirko Feliziani in scena al Teatro Argot Studio di Roma. Recensione
La performance art non è poi così popolare in Italia, non così diffusa. Forse perché sono pochi i “luoghi deputati” pronti a ospitarla, poche le energie che con coraggio scelgono di dedicarvi spazio. E forse troppo magra la tradizione di fruizione necessaria ad assicurare un pubblico. Nel nostro teatro di oggi esistono diversi esempi di arte scenica che incrociano questi con altri moduli più accessibili come il teatro di testo o la danza – pensiamo ai lavori di Alessandro Sciarroni, ma anche a quelli di Lenz Rifrazioni, di Teatro Valdoca, ultimamente anche di Fanny&Alexander, ma anche di molti altri – fino a dar vita a un nuovo dna, una specie che espone agli occhi del pubblico l’oggettività di un materiale drammaturgico per farlo poi detonare sul corpo e sulla biografia degli interpreti. Al punto che il termine “interprete” perde senso. Ed ecco che si torna di nuovo nel regno dell’ermeneutica e nel tempo della definizione. Della differenza tra “presentazione” e “rappresentazione”, dove la prima potrebbe essere una declinazione ultra-personale e necessariamente autoriferita della seconda, “parla” con grande efficacia Milk, l’ultimo lavoro di Mirko Feliziani. L’artista romano, che avevamo visto lavorare con registi come Massimiliano Civica ma già proteso verso un sottile percorso solista (pensiamo al suo Melò del 2008), è stato una delle figure più interessanti, prima di lasciare l’Italia per un periodo di lavoro all’estero, ultimamente accanto al performer bulgaro Ivo Dimchev. Del sodalizio con quest’ultimo artista si trova traccia in Milk, pensato come un percorso in tre tappe per altrettante stanze d’albergo e qui riassunto, nell’ambito della vivida offerta di Primavera Argot allo spazio di Via Natale del Grande in una sorta di maratona.
Corpo. Innanzitutto questo. Corpo e voce. Poi pochi oggetti da maneggiare – principalmente parrucche e accessori di vestiario – uno schermo lcd e un tablet, non ridotti a banali orpelli tecnologici ma trasformati in reali agenti drammaturgici. Feliziani, con il suo fisico glabro e compatto, ben piantato su un poderoso paio di polpacci, “si” porta sulla scena come un archetipo in carne ed ossa per tre figure emblematiche: l’Omosessuale, l’Ultra-nazionalista e il Migrante (rispettivamente in Home,Utøya, Africa) diventano il paradigma di una società dell’alterità e dell’esclusione. C’è qualcosa dell’immaginario asettico e nordico di Gus Van Sant, c’è un sapore orientale nella trama fluida e agilmente didascalica dei gesti, c’è soprattutto un coraggio frontale nel modo in cui le energie disperate (e disperanti) di queste tre figure passano attraverso il corpo di Feliziani, mutato in una sorta di cassa di risonanza. Una presenza fisica composta e capace gli fa abitare lo spazio – raccolto à la Peter Brook in una sorta di quadrato sacro – con movimenti liquidi e sguardi posizionati nel vuoto. Nella ricerca per un format inedito, il «musical da camera», eleganza diviene la parola chiave, mentre la voce dell’artista passa dal parlato al cantato componendo una vera e propria partitura, un salmo armonico che resta appeso saldamente alle modulazioni vocali e a un’inaspettata sapienza nel costruire armonie su semplici loop, inanellando versi in inglese, ottimo antidoto alla retorica.
Di questa, infatti, non vi è quasi mai traccia, se non forse in qualche passaggio pericoloso del secondo frammento, dove il terrorista di Utøya ricalca con forse troppa freddezza il modello neofascista. Se ancora da oliare sono gli ingranaggi che mutano un quadro nell’altro, quel che colpisce del lavoro di Feliziani, che nell’ultima parte, disegnando il dramma dei migranti, esplode in slanci marcatamente performativi (il corpo cosparso di tintura color cioccolato, un cartone di latte che “sanguina” nel secchio) è il millimetrico equilibrio dei segni utilizzati: il materiale video è ben prodotto e ben ideato, dunque efficace come schiaffo ironico agli stereotipi della performance art; la partitura gestuale disegna in aria le sbavature di un mondo interiore che svaniscono un attimo prima di creare una reale empatia; il controllo dell’espressione facciale, linea orizzontale alle tre storie che richiama, gridando, la persistenza di tratti assolutamente umani. Il risultato è una trama di reale perdizione, una speranza negata con tale candore da fare ancora più male e un’ironia sommessa e diffusa, resa evidente nel momento esatto della sua sottrazione. In questo modo la “scrittura sul corpo” diviene davvero una scrittura intima, l’elemento umano torna necessario: un modulo di fruizione che chiamerebbe un attraversamento momentaneo viene trapiantato nella visione frontale dando al nostro stesso guardare un verdetto di complicità in un delitto che neppure ci siamo resi conto di aver commesso.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Teatro Argot Studio, Roma – Aprile 2015
MILK – Tre pezzi per un musical da camera
di e con Mirko Feliziani
produzione Le Sembianze di Marion Ilievski
coproduzione e residenza Carrozzerie n.o.t
consulenza movimento scenico Giuseppe La Regina