Atlante XLVII – Festival Giuseppe Bertolucci e i doveri di una Regione
«L’Assessorato alla Cultura e alle Politiche Giovanili della Regione Lazio insieme all’ATCL – Associazione Teatrale fra i Comuni del Lazio, in collaborazione con Teatro di Roma e la Casa del Cinema, presentano la prima edizione del Festival Giuseppe Bertolucci – il suo cinema, il suo teatro, la sua televisione. Il progetto nasce dalla volontà di rendere un omaggio all’opera di Giuseppe Bertolucci, a quasi tre anni dalla sua scomparsa, ricordando il suo prezioso contributo al teatro, al cinema e alla televisione italiani, a partire dai primi anni Settanta fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2012, all’età di 65 anni».
Questo è quanto si legge nella pagina di apertura del Festival Giuseppe Bertolucci, da pochi giorni concluso a Roma. Si tratta dunque di un omaggio alla figura di questo regista, voluto e sostenuto dall’assessore regionale Lidia Ravera che l’ha realizzato, si evince, impegnando le strutture organizzative incrociate di ATCL, Teatro di Roma, Casa del Cinema (ma in realtà, secondo ancora la pagina ufficiale, anche il MiBACT direttamente e il Comune di Roma come collaboratore hanno provveduto al sostegno). Leggendo però tra le ridondanti e pleonastiche righe di ciò che è presentato e tentando di approfondire un monito posto da Franco Cordelli sul Corriere della Sera il 22 maggio 2015, non sfuggono alcuni dubbi cui forse è il caso di dedicare attenzione.
La prima annotazione è di metodo: lo stesso direttore Antonio Calbi, in una delle sue tirate pre-ogni-spettacolo nelle sale del Teatro di Roma – dopo aver ricordato che lo spettacolo (Karenina con Sonia Bergamasco, a chiusura del festival) sarebbe iniziato con ritardo per attendere la fine di quello nell’altra sala del Teatro India perché «le due sale non sono coibentate acusticamente» e quindi non si possono fare due spettacoli in contemporanea, alla faccia dei famosi lavori – ha dichiarato che il festival è stato «fortemente voluto» dall’assessore Ravera, quindi anche ideato, finanziato. Se abbiamo pertanto creduto che l’amministrazione fosse un’entità di risonanza all’esperienza artistica, alle pratiche e ai tentativi più o meno sostenibili, abbiamo creduto il falso; o, meglio, abbiamo creduto qualcosa che oggi invece si presenta diversamente. Questo Assessorato ha scelto di spostarsi dall’altra parte, di trasformare il proprio dovere di scelta e giudizio nei confronti degli operatori d’arte in un diritto ideativo, facendo di sé un direttore artistico. La domanda è dunque: se l’ATCL e il Teatro di Roma vivono di finanziamenti che giungono anche (o quasi soltanto, nel primo caso) da questo Assessorato, potevano rifiutarsi di mettersene al servizio per questo festival? Domanda numero due: chi ha deciso che la personalità di Giuseppe Bertolucci fosse così più meritoria di un omaggio – e quindi di un ingente finanziamento e dispendio di energie pubbliche – rispetto ad altri notevoli artisti legati a Roma o, che so, alla regione cui Roma appartiene? Chi pensa un progetto simile deve passare per una decisione di un organo imparziale e capace appunto di giudizio, di scelta, ma se l’ideatore e l’organo hanno lo stesso nome?
La seconda annotazione riguarda l’opportunità: Giuseppe Bertolucci è stato un regista che ha attraversato cinema, teatro, tv, ha avuto il merito di portare alla luce Roberto Benigni ma poco altro, nella storia dell’arte scenica, in primo luogo. Soprattutto per questa città. Attraverso una anche breve analisi biografica, possiamo dire che la sua rilevanza culturale sia di adeguato spessore? Eppure a Roma hanno operato artisti davvero in grado di incidere e non serve pensare ai troppo noti Bene o de Berardinis/Peragallo; lo stesso Cordelli ricorda Giuliano Vasilicò, ma potremmo dire di Giancarlo Nanni e molti altri, fino a raggiungere un altro Giuseppe, Patroni Griffi, cui si dedica sempre poca attenzione. Viene dunque il dubbio che questo sia un omaggio personale, peggio, personalistico, di Lidia Ravera assessore che è anche scrittrice sceneggiatrice e che con Bertolucci in passato ha molto collaborato, mescolando pericolosamente i due ruoli con malcelata compromissione.
Proprio la rilevanza culturale, tuttavia, fa nascere la terza e ultima annotazione: la politica degli eventi la si sperava conclusa con il “veltronismo”, trasformando finalmente l’assessorato in un sostegno delle buone pratiche artistiche. Eppure questo festival, che ha coinvolto molto onerosamente cinque attori per cinque monologhi, sembra proprio figlio di quell’epoca, quando in questa le risorse sono anche diminuite in modo drastico. L’impianto borghese che soggiace a questa ideazione di spettacoli, proiezioni, convegni, incontri, denuncia in maniera schietta che la conservazione di una riconoscibilità culturale si ritiene più importante dell’evoluzione, ora sì, culturale, che riempire il Teatro Argentina con l’intervento in apertura di Roberto Benigni in ricordo dell’amico fa sembrare di aver svolto il proprio compito, invece rimasto negato nella burocrazia dei bandi e di una partecipazione difficile a risorse che, in contrario, per altri progetti vanno via a guizzi di torrente. Se dunque il “fascino discreto” di una disintegrata borghesia sta scomparendo in pantomime non teatrali ma teatralizzate di serate d’onore, applausi a scena aperta, tributi a un divismo cadente e decrepito, con lo stesso fiume va via anche questo festival. Di cui molto probabilmente, come accadrà alle annotazioni fatte fin qui, non si conserverà memoria.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia