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Ulderico Pesce. L’arte della denuncia

Intervista a Ulderico pesce in occasione della sua antologia di spettacoli presentati al Teatro Tor Bella Monaca.

 

Storie di scorie - foto Coconi -Panzironi
Storie di scorie – foto Coconi -Panzironi

La forma teatrale è quella immediatamente pronta per essere discussa sulla scena, perché il dibattito sia il primo contatto con una platea. Per questo molti spettacoli di teatro civile restano in evoluzione e seguono i rivolgimenti delle vicende civili, appunto, e giudiziarie. Tu hai fatto della denuncia una linea artistica, la maggior parte dei tuoi spettacoli sviluppa un’azione politica concreta. Ma come ha avuto origine questa necessità?

Il primo di questi spettacoli fu L’innaffiatore del cervello di Passannante, nel 1999. Io ero a Roma e trovai questo Museo del Crimine dove vidi il cranio di un criminale abituale e tra parentesi la sigla PZ, Potenza, vidi cioè che era uno delle mie parti. Venivo da studi classici ed ero affascinato dall’Antigone, così mi appassionai a questo cadavere senza sepoltura. All’epoca andavo all’università ma la maggior parte del tempo la dedicavo a queste ricerche, trovai gli atti e iniziai a raccontare questa storia agli amici, per cui vivevo una sorta di processo di identificazione: io venivo da un piccolo paese lucano e arrivavo a Roma da disadattato, facevo i lavori più umili, in Accademia non ero riuscito a entrare, anche la città la trovavo caotica e mi sentivo solo, così verso questo altro lucano sperai che la città avesse quell’umanità che per me non sentivo.

Non a caso è il primo, forse. Perché l’unico di tutti questi spettacoli in antologia che affonda in una storia antica e che quindi non può avere una testimonianza diretta di storia orale. Com’è avvenuto il passaggio alla ricerca diretta?

Io concepisco la drammaturgia attraverso schemi molto chiari, tradizionali, con inizio sviluppo e fine, con dei personaggi e un conflitto; per questo motivo anche avendo un grosso materiale orale devo coordinarlo dentro una impalcatura drammaturgica molto stretta.
Ad esempio il successivo, Storie di scorie, è nato durante la battaglia di Scanzano Jonico. Berlusconi, in quegli anni al Governo, decise di fare in Basilicata il deposito unico per le scorie nucleari, allora un agricoltore occupò con un trattore la Matera-Altamura e altri fecero lo stesso su altre strade. Nasceva il problema di cosa fare durante il blocco, così io li ho chiamai e dissi che sarei stato con loro tutto il tempo e avrei rappresentato quello che si diceva durante la giornata. Per questo lo spettacolo è scritto a tappe, serviva raccontare cos’è una barra atomica, poi l’occupazione delle terre, la trattativa col governo, lo sciopero, gli incidenti in altre zone d’Italia. Rileggendolo mi sono accorto che c’è una condensazione della lotta con tutti i passaggi, i nomi, i numeri.

E infatti proprio allora, con le petizioni lanciate da ognuno degli spettacoli, nasceva una forma abbastanza innovativa in cui la frattura nella società civile faceva nascere l’esigenza del teatro fino a trasportarla fuori, nella coscienza degli spettatori chiamati a un atto di responsabilità, a prendere parte attiva, farsi carico della vicenda e spingerla di nuovo nella società civile. Come hai rintracciato questo possibile indirizzo?

È stato in realtà abbastanza facile per me: io sono figlio di un sindacalista, mi sono sempre svegliato con contadini, braccianti agricoli che venivano a casa per i loro problemi; nel nostro piccolo paese mio padre era un po’ la figura alternativa alle altre autorità come il sindaco, il parroco, il maresciallo. Le prime prove di teatro che feci infatti erano prove di comizi, prendevo il suo megafono e gli scaricavo sempre le batterie. Poi a scuola mi innamorai del Teatro di Dioniso, il luogo dove i greci – dobbiamo immaginare ogni volta 20.000 persone – si riunivano per parlare dei problemi della città, ma proprio attorno a me gli esempi e i luoghi vissuti erano più vicini alla Grecia Antica che all’Italia. Per questo motivo quando ho cominciato a fare teatro ho sempre pensato a un teatro utile, politico, dove la comunità si potesse riconoscere. Cercai subito una soluzione perché dall’azione scenica potessi capire se la gente avrebbe voluto risolvere con me quello di cui si parlava; capii così che internet era una grande opportunità e sfruttai la rete per le petizioni popolari: l’azione scenica portava alla reazione sociale.

Che risultati sono stati ottenuti?

Ho preso ogni volta le petizioni e le ho portate ai ministri, che le hanno prese in considerazione. In totale su tutti gli spettacoli avremo tra le 20.000 e le 30.000 firme. Per quello che riguarda i risultati, Passannante è stato seppellito e questo mi riempie di orgoglio, ma anche la condotta radioattiva di 800 metri, abbandonata nel mare di Metaponto, è stata rimossa con un finanziamento di 780.000 euro. Sul resto si sta ancora lavorando a fondo.

Il tuo primo spettatore è dunque già cittadino, o si vorrebbe lo fosse. Lungo i 15 anni che separano il primo dei lavori da oggi molto è cambiata la percezione che il cittadino ha di intervenire attivamente sulla vita politica, per la prima volta un movimento nato dal web come il Movimento 5 Stelle ha bucato la barriera e si è posto come soggetto politico di fianco, o in alternativa, ai partiti tradizionali. In virtù di questi cambiamenti, come hai visto modificarsi il tuo spettatore abituale, quindi attento e già sensibile all’azione civile, durante questo periodo?

Il pubblico, cioè chi già sceglie di andare a teatro, è più indignato degli anni precedenti, anche i commenti alle petizioni fanno vedere che all’inizio c’era un maggiore riguardo rispetto le istituzioni, oggi scrivono cose a rischio denuncia. Il cittadino medio italiano però è indifferente, l’esercizio di cittadinanza attiva non interessa a molti, anche il Movimento 5 Stelle mi sembra casuale e solo di protesta, manca approfondimento, c’è una dittatura spietata dei mass media che educano a sviluppare desideri osceni…

Forse bisogni, non necessità, travestiti da desideri…

Certo, c’è solo una mancanza da soddisfare, non c’è riflessione e quindi non c’è scelta. Ma ce ne accorgiamo anche da quanto si è inaridita la comunità teatrale in Italia: un tempo il singolo era inserito all’interno di un’azione collettiva, ora mi sembra agisca sempre e solo per sé; se ad esempio il cittadino protesta per l’amianto non è per il fatto che ce ne siano 32 milioni di tonnellate in tutta Italia, ma perché ce l’ha lui sul suo tetto. Ciò vuol dire che le battaglie comuni stanno scomparendo. Ed è triste, parlando di teatro, perché noi abbiamo iniziato pensando di riferire “alla comunità della comunità”.

Questa cornice attorno all’individuo non pensi abbia a che vedere con il riquadro “profilo” suggerito dai social network? Quello è il primo spazio di solitudine del singolo che interviene in quanto sé stesso, anche quando parla di temi comunitari…

È proprio il codice dei social network che permette al singolo di fronte a una tastiera di sentirsi il padre eterno, separandolo dai problemi degli altri. Assurdo che avvenga in una rete, di concetto la massima espressione di comunità, che però è di contenuti e non di sistema. Come un pianoforte in cui ogni tasto sia da solo e non in accordo con gli altri suoni. Paradossalmente anche quando i soggetti sono d’accordo, quando hanno le stesse idee su qualcosa, le stesse radici, il network sviluppa la loro diversità e diventa un luogo di massimo isolamento.

E il teatro?

Il teatro ancora lo mantiene questo stato di comunità, si sta tutti assieme, si spengono i telefoni, si ascolta per un interesse collettivo, ma l’hanno distrutto: è stato utilizzato per fare soldi, tanti, gestiti da pochissime persone e sono nate le lobby teatrali; io ho lavorato con Luca Ronconi che considero uno dei peggiori registi che il teatro italiano abbia avuto, se per regia intendiamo la voglia di portare passione, emozioni, lui era invece un regista freddo, che ha usato le persone come macchine, che ha fatto di tutto per costruire attori come automi, ma è stato uno dei più finanziati: io feci uno spettacolo con lui (Gli ultimi giorni dell’umanità ndr) che costava 5 miliardi di lire e dopo tre giorni in scena distruggemmo tutto. Con quel denaro possono oggi vivere ottanta compagnie nelle periferie italiane che avvicinano il teatro alla gente. È finita l’epoca del genio, bisogna ripartire da poche cose, dalle piazze, dal confronto diretto con i posti dove la gente vive, riportarlo cioè all’origine: se i giovani non vanno più a teatro è perché oggi appassionare, o lasciare quel po’ di nozioni in più per agire sulla realtà e trasformarla, è l’ultimo interesse di un regista. E dovrebbe essere il primo. Forse l’unico.

Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia

In scena al Teatro Tor Bella Monaca, Roma, dal 14 al 18 aprile 2015

14 aprile 2015
STORIE DI SCORIE
il pericolo nucleare: Scanzano Jonico, Casaccia di Roma, Latina,
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Premio Calandra 2008
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15 aprile 2015
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16 aprile 2015
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i traffici illeciti di rifiuti in Italia
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17 aprile 2015
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MORO I 55 GIORNI CHE CAMBIARONO L’ITALIA [RECENSIONE] di Ulderico Pesce e del Giudice Ferdinando Imposimato
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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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