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Teatrosofia #13. Platone contro la “spettacolocrazia”

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. In questo appuntamento cerchiamo di iniziare a capire come si poneva Platone nei confronti del teatro.

 

In Teatrosofia, rubrica curata da Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

Anselm Feuerbach, Il simposio di Platone 1871-1874
Anselm Feuerbach, Il simposio di Platone 1871-1874

Per capire la portata e la complessità dell’operazione platonica nei riguardi del teatro, può essere utile cominciare dall’ultimo scritto di Platone, ossia dalle Leggi. Un lungo passo del libro III della stessa opera individua, con un pregnante neologismo, il nemico che il filosofo combatté durante la sua intera vita: la “teatrocrazia”. Si tratta di un hapax di tutta la letteratura greca, che esprime bene la confusione e la violenza che erano capaci di diffondere, secondo Platone, i poeti dell’epoca.
Il libro evidenzia prima di tutto la perniciosa influenza di costoro sul piano estetico ed epistemologico. I poeti negano l’esistenza di una norma oggettiva utile a indicare quando una composizione musicale è bella o no, sicché chi fa poesia è legittimato a creare senza seguire alcun criterio e fidandosi del suo solo arbitrio, mentre chi la ascolta è autorizzato a giudicarla seguendo le sue impressioni immediate. Se una cosa piace, è bella, se dispiace, è brutta, non importa che il fruitore non sappia niente di musica o sia una persona dal carattere disordinato e perverso. Il punto è di una gravità estrema per un filosofo come Platone, il quale pensa al contrario, come si legge nel Fedro, che esista una bellezza in sé situata al di là del cielo del nostro cosmo, da conoscere quanto più possibile per improntare ogni propria azione e opera al bello e alla misura, disdegnando il falso criterio del piacere immediato.
A questa confusione e violenza di carattere estetico-conoscitivo ne subentra, però, una ben più pericolosa di tipo etico-politico. Platone sottolinea che il discorso dei poeti induce gli uomini a ritenersi giudici e creatori competenti in ogni altro ambito. Poiché tutti possono comporre e valutare musica, allora tutti possono anche imporre agli altri, ad esempio, il modo in cui reggere uno Stato ed educare i giovani, partendo sempre dall’impressione di quanto piace o dispiace loro. Si potrebbe dire, in un certo senso, che il discorso dei poeti legittima a pensare che anche la politica e l’etica siano opere d’arte realizzabili da chiunque, nonché a soppiantare il potere aristocratico. Se infatti l’aristocrazia prevede che solo i migliori per intelligenza, sapere e gusto estetico governino la città, la “teatrocrazia” ammette che lo possano fare tranquillamente anche bruti e ignoranti, anzi che ogni loro scelta risulterà sempre giusta e bella.
La soluzione prospettata da Platone al caos che i poeti gli pongono davanti agli occhi consiste, da un lato, nel ribadire con forza l’esistenza di una conoscenza oggettiva, da opporre alle performances a cui la massa è abituata. Il libro VI della Repubblica è esplicito in tal senso, contrapponendo i filosofi autentici amanti dello «spettacolo della verità», dove gli attori che recitano sono la bellezza in sé, la giustizia in sé e le altre idee iperuranie, ai filosofi falsi amanti invece degli spettacoli di attori e saltimbanchi qualsiasi, dove si reputa bello, giusto o dotato di valore solo ciò che appare. Dall’altro, Platone conduce la sua battaglia pensando alla filosofia e alla politica come le rivali della poesia ovvero rispettivamente come la «musica altissima» (Fedone) e la «tragedia più vera» (libro VII delle Leggi). Una volta eseguite o rappresentate, entrambe mostreranno tutti gli altri drammi teatrali e musicali quali mere contraffazioni della vera bellezza e della vera giustizia, dissolti come il buio al sorgere del sole.
In linea molto generale, il programma platonico è sano e condivisibile, almeno per quel che concerne la critica alle impressioni immediate come misura ultima e indiscutibile di tutte le cose. L’unico “correttivo” urgente che esso richiede è una disambiguazione terminologica. Platone parla indifferentemente di “spettacolo” della verità e della falsità. Inoltre, considera “teatro” le performances che istigano il disordine estetico, epistemologico e morale, così almeno sembra implicato dal neologismo “teatrocrazia”. Questi usi oscurano, purtroppo, una distinzione chiara a qualunque artista onesto. Una cosa è lo spettacolo e un’altra è il teatro, poiché l’uno è l’apparato che struttura una rappresentazione mimetica sia buona (vitale) sia cattiva (scialba e improduttiva), l’altro è l’evento in parte inaspettato che emerge dallo spettacolo buono e manifesta qualcosa di vero / di bello.
Se volessimo restituire un ordine, dovremmo allora dire quanto segue. Quando Platone parla dello «spettacolo della verità», si riferisce in realtà al teatro e quando descrive gli spettacoli che generano confusione e violenza degli uomini, si riferisce agli spettacoli cattivi, dalle forme rigide e vuote. Ciò implica che il pur affascinante neologismo “teatrocrazia” è stato forse scelto affrettatamente. Al suo posto il filosofo avrebbe potuto coniare qualcosa come “theamacrazia” o “spettacolocrazia”, ossia governo di coloro che, nella musica come nella politica, favoriscono la falsa apparenza immediata alla conoscenza autentica e ben fondata. La “teatrocrazia” in senso proprio si rivelerà essere, invece, il governo di coloro che vogliono allestire lo «spettacolo della verità», sperando di dissipare dall’arte e dalla vita il buio dell’ignoranza, entro cui ancora oggi brancoliamo.

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Dopo di che, con il passare del tempo, i poeti diventarono i signori incontrastati delle trasgressioni compiute a danno della musica, poeti per indole naturale, ma ignoranti del giusto e del lecito in poesia, e colti da furore bacchico e invasi dal piacere più del necessario, mescolavano insieme i treni con gli inni, e i peani con i ditirambi, e imitando con la musica della cetra quella del flauto, e confondendo tutto con tutto, pur senza volerlo, dicevano delle menzogne contro la musica a causa della loro ignoranza, e cioè che la musica non ha alcuna norma, e che qualunque persona – buona o cattiva che sia – può giudicarne il valore dal piacere che gli procura. Facendo tali opere e aggiungendo ad esse tali discorsi, inculcarono nella maggior parte delle persone questa licenza nella musica e l’ardire di sentirsi in grado di erigersi a giudici: e quindi i teatri da muti diventarono vocianti, come se chiunque avesse orecchio per capire ciò che nella musica è bello e ciò che non lo è, e in luogo di un’aristocrazia competente in tale campo si sostituì una cattiva “teatrocrazia”. Se una democrazia formata da uomini liberi si fosse limitata al solo ambito musicale, non sarebbe accaduto nulla di terribile: ma ora, presso di noi, ha preso origine dalla musica l’opinione per cui tutti sanno tutto e un’illegalità che si è accompagnata alla licenza. Tutti infatti non avevano più paure perché si credevano sapienti, e questa sicurezza ha generato l’impudenza: perché nel non avere timore, a causa della propria insolenza, dell’opinione di chi è migliore consiste la malvagia impudenza che nasce da una libertà eccessiva (Leggi, libro III, 700d-701b)

«Non diremo dunque anche del filosofo che egli desidera tutto il sapere, e non una parte di esso e un’altra no? (…) Chi al contrario è favorevolmente disposto a gustare ogni conoscenza, e con gioia si appresta ad apprendere, e ne rimane insaziabile, costui con giustizia chiameremo filosofo». E Glaucone disse: «Ne troverai certo molti, e strani, di uomini del genere. Tutti gli appassionati di spettacoli, per esempio, mi sembrano essere tali perché si rallegrano d’imparare, e poi gli appassionati di audizioni, gente certo ben strana da collocare tra i filosofi, che non vorrebbero proprio andare spontaneamente ad ascoltare discorsi razionali e una discussione di questo tipo, ma che, quasi avessero affittato le orecchie, corrono dietro alle feste dionisie per ascoltare tutti i cori, senza trascurare né quelle di città né quelle di campagna. Dunque tutti questi e quanti altri si applicano ad apprendere questo genere di cose e altre tecnicucce, li chiameremo filosofi?». «Per nulla» dissi «bensì simili ai filosofi». «Ma quelli veri» disse «come li intendi?». «Quelli» io dissi «il cui spettacolo prediletto è la verità» (Repubblica, libro V, 475b-e)

Spesso, nella mia vita trascorsa, mi visitava lo stesso sogno, e mi appariva ora sotto un aspetto, ora sotto un altro e mi diceva sempre la stessa cosa: «O Socrate componi ed esegui musica». Ed io quello che facevo nel tempo precedente ritenevo proprio che fosse questo che il sogno mi spingeva e mi invitava a fare, come quelli che incitano coloro che stanno correndo, così anche a me il sogno ordinava di fare quello che facevo, cioè di fare musica, come se la filosofia fosse musica altissima, ed io facevo appunto di questa (Fedone 60e-61a)

«Stranieri, possiamo [noi poeti] frequentare il vostro stato e la vostra regione oppure no? E possiamo portare ed introdurre la nostra poesia, o come avete stabilito che dobbiamo comportarci a questo riguardo?». Quale risposta daremo alle domande di questi uomini divini? Una risposta del genere, mi pare: «Ospiti nobilissimi, noi stessi siamo poeti di una tragedia che, nei limiti del possibile, è la più bella e la più nobile: tutta la nostra costituzione politica si è formata sull’imitazione della vita più bella e più nobile, e in questo noi diciamo che consiste in realtà la tragedia più vera. Poeti siete voi, poeti lo siamo anche noi, poeti della stessa materia, vostri rivali nell’arte, vostri antagonisti nel comporre il dramma più bello che soltanto la vera legge può per natura compiere, come noi ora speriamo: non pensate che vi lasceremo tanto facilmente venire da noi a piantare le vostre scene nella piazza, e di introdurvi attori con una bella voce, che strepitano più di noi, non pensate che vi lasceremo parlare da demagoghi ai bambini, alle donne, e a tutta la folla di persone, lasciando che voi diciate, riguardo agli stessi costumi, cose diverse dalle nostre, ed anzi, per lo più e nella maggior parte dei casi, contrarie. Saremmo, per così dire, completamente pazzi, noi e tutto lo stato, se vi lasciassimo fare ciò che abbiamo appena detto, prima che i magistrati abbiano giudicato se le vostre composizioni possono essere rese pubbliche oppure no. Ora dunque, figli delle tenere Muse, mostrate prima di tutto i vostri canti ai magistrati confrontandoli con i nostri, e se risulterà evidente che voi dite le stesse cose che diciamo noi, e in maniera anche migliore, noi vi daremo un coro, altrimenti, amici, non potremo affatto» (Leggi, libro VII, 817a-d)

[I due passi delle Leggi (trad. di Enrico Pegone) e quello del Fedone (trad. di Gino Giardini) sono tratti da Enrico V. Maltese (a cura di), Platone. Tutte le opere, 5 voll., Milano, Newton & Compton, 1997. La citazione del libro VI della Repubblica è invece in Mario Vegetti (a cura di), Platone. La Repubblica. Volume 5: libro 6, Napoli, Bibliopolis, 2003]

Enrico Piergiacomi
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