Sweet home Europa di Davide Carnevali con la regia di Fabrizio Arcuri al Teatro India di Roma. Recensione
Sono giorni che mi gira nella testa una vecchia frase del filosofo, scrittore, emblema della storia del pensiero novecentesco Jean-Paul Sartre. Dice, non senza qualche compiacimento, che «se Dio esistesse, non cambierebbe nulla». La storia, dunque, per Sartre è storia dell’uomo (è lo stesso autore che in A porte chiuse dichiara: «L’inferno sono gli altri»), costruzione di una contemporaneità come atto di creazione nell’impeto evolutivo dell’esistenza, il suo credo, la sua fremente vitalità. Mi resta nella mente come ultimo atto che succede alla visione di Sweet home Europa, scritto da un drammaturgo nato nel 1981, Davide Carnevali (intervista), e quindi da un giovane uomo che inizia ad avere la distanza storica, critica, per affrontare il conflittuale dialogo tra due idee di mondo in contrapposizione ideologica, culturale, civile. Religiosa, infine e a dispetto di ogni altra. Al Teatro India di Roma ne ha reso fedele lettura Fabrizio Arcuri (regista di Accademia degli Artefatti), in scena fino al 26 aprile.
Il testo – appena pubblicato dall’editore CuePress – è la prima parte di un Dittico sull’Europa affondato nelle fondamenta che animano il continente più contrastato, teatro di scontro quotidiano e spettro tenebroso di ciò che nell’umano è, o diviene, disumano. Già il sottotitolo è eloquente: Una genesi. Un esodo. Generazioni. Suppone dunque che in un’origine, la quale presiede all’evoluzione, sia già implicito il conflitto tra migrazione e ospitalità, tra comprensione e assorbimento, visibili nelle pratiche della vita civile, nelle parvenze culturali, nell’anima dei popoli in fuga sia dalla radice che dallo sradicamento, dunque da un contesto di accoglienza di individui stranieri a un altro in cui si diventa, perché si è, stranieri. Carnevali pone a giudizio la nostra società con impietosa carica critica, desertificando le relazioni fino a una meccanica scarna in cui c’è un Uomo che è tutti gli uomini, una Donna che è tutte le donne, l’Altro uomo – si badi la maiuscola per Altro e non per uomo – che rappresenta il lascito di una generazione per l’altra, la ritualità vera o presunta, l’impossibile germinazione là dove una radice abbia già permeato, occupato, il suolo possibile. Eppure è per quest’uomo in minuscola, l’uomo-comunità, che si propende, l’unico che sembri conservare il seme dell’umanità invece perduta dall’Uomo-società.
C’è un giardino prima di tutto. Ma non è più l’Eden. È il simbolo contiguo di progresso e marcescenza, forse, in una parola: di mutazione. C’è una struttura sovraesposta fatta di quattro pedane parallele che fanno spazio di delimitazione a tre carrelli semoventi tra il fondale e il proscenio. Portano ogni cosa e ognuno, ogni cosa che sia trasportabile, non ciò che diviene o è già: macerie. Tutto ciò è invece frutto di esplosione, di crollo, come fosse già immanente nell’idea di edificio. Un accordo diplomatico, nelle parole dei due uomini, nato dal sangue e dalla ferita, dall’umiliazione e dalla sopraffazione, ne sembra il contraltare.
Fabrizio Arcuri è rigoroso nella lettura di un testo allusivo, frutto di una scrittura sofisticata e densa, capace di assorbire nei dialoghi concetti molto complessi, al contempo ricco di espressività e di caratteri – pur divisi in dodici quadri – in cui riconoscere elementi universali. Un uomo è tutti gli uomini, un popolo tutti i popoli. La necessità di un regista maturo come Arcuri sta sempre più diventando è pari alla capacità di riconoscere nei testi il proprio segno e non di imporlo, dedicando un’attenzione scrupolosa alla recitazione – Michele Di Mauro è l’Uomo, Matteo Angius l’Altro, Francesca Mazza la Donna – di attori ispirati, riuscendo nel difficile compito di coordinare la loro relazione con la possente musica di Davide Arneodo e Luca Bergia (Marlene Kuntz) assieme alla voce di NicoNote e con il sorprendente lavoro installativo/scenografico di Enrico Gaido e Riccardo Dondana, curatori delle sculture sceniche esplosive.
Carnevali dunque dà vita a una scheletrica epopea del presente, alternando primo e secondo piano di lettura, eleganza e allegoria, fin quasi a far detonare la figuralità espressiva nella parola corrispondente. Può farlo perché quelle parole hanno perso il significato primario, su di loro pesa quel vento che «soffia sempre più forte», confonde le rotte ai marinai, disperde le lingue di una Babele smarginata, irrimediabile. Perché ogni lingua è ora uguale all’altra, eppure nessuno sa capirsi. Segno che il problema non è più l’espressione, o in minore la mera comunicazione. Ma gli uomini che la esercitano.
Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia
Teatro India, Roma – Aprile 2015
SWEET HOME EUROPA
Una genesi. Un esodo. Generazioni
di Davide Carnevali
regia Fabrizio Arcuri
con Matteo Angius, Francesca Mazza e Michele di Mauro
musiche composte e eseguite dal vivo da Davide Arneodo, Luca Bergia (Marlene Kuntz) e NicoNote
Sculture sceniche esplosive Enrico Gaido e Riccardo Dondana
Produzione Teatro di Roma