Dopo il Grigio della politica e il Giallo dell’educazione, il Discorso Celeste di Fanny&Alexander parla di religione. E di sport. Recensione
Da capo. Ricominciamo da capo. Ché non siamo riusciti a vincere la morte. Ché la morte è ovunque ed è sempre e comunque una sfida. Si va avanti, si affina la tecnica, si impara a guardarsi vivere e poi si scopre, a un passo dal traguardo, che il senso era tutto nella preparazione, nella messa alla prova, che la vittoria, se c’è, è cosa che non ci riguarda. All’Angelo Mai che tenta di tirare avanti, in scena c’è solo Lorenzo Gleijeses, ma non è solo. Insieme a lui c’è un impianto visivo senza sbavature, quello di Luigi De Angelis che firma anche la regia, c’è il lavoro video di ZAPRUDERfilmmakersgroup; soprattutto ci sono le tenaci maglie sonore tessute da Mirto Baliani. E poi c’è una voce, quella di Geppy Gleijeses, in tutto e per tutto il fantasma del padre di Lorenzo, come dire di Amleto.
Dopo quello Grigio che registrava le interferenze del logos (e dell’anti-logos) politico attraverso corpo e voce di Marco Cavalcoli, quello Giallo che faceva esplodere l’etica (e l’anti-etica) dell’educazione nella figura multiforme e severa di Chiara Lagani, il Discorso Celeste di Fanny & Alexander è quello «religioso». Uno spettacolo stereoscopico, che allarga le risonanze con il passare delle ore. Un lavoro che – si vede, si capisce, e questo è buono – è parte di un lavoro più ampio, è una frase di un intero discorso che, come tale, ha alti e bassi, pause e riprese, momenti di dilatazione e di stasi, invettive e cambi di tono, tremiti di voce e sussurri. Come lo sport.
Quella dello sport – recuperato in un senso ampiamente primitivo e dunque legato stretto all’agonismo e al concetto di sforzo – è solo una delle metafore suggerite e a volte urlate da questa drammaturgia di Chiara Lagani. Una drammaturgia appuntita, sincopata, che chiede molto allo spettatore ma ancora di più al performer, un Gleijeses che “mette in campo” tutta l’esperienza fisica, muscolare, di sudore, appresa negli anni della formazione con l’Odin Teatret.
In tuta celeste affronta i settanta minuti di spettacolo come un arduo videogame in cui si passa di livello, si torna all’inizio, dal fango si scala l’aria fin su nel cielo azzurro, per poi planare in un Eden HD proiettato in 3D (da gustare con appositi occhialini sul naso) su uno schermo rotondo, un paradiso terrestre patinato e posticcio, in fondo angusto e neanche troppo ospitale, fatto di cinguettii e fronde esotiche mosse dal vento.
Tra i quadri di questa estenuante prova – portata a termine quasi sempre dietro a un velatino che del corpo proietta solo l’ombra mobilissima impegnata in servizi da tennis o scambi di pugilato – si snoda il dialogo tra un figlio e suo padre, un padre che è nello stesso tempo custode, protettore, padrone severo, doppio e nemesi. Come in questa nostra religione, così lineare nelle sue colonne di patriarcato e però piena di slittamenti morali che fanno sgusciare via la responsabilità finale delle azioni. Qui religione e sport tentano di compenetrarsi a vicenda l’immaginario sporgendosi sul crinale di un mega-discorso sul potere e sulla sottomissione.
La scelta un po’ ammiccante di inserire un elemento autobiografico così forte come la voce reale del padre rende in certi momenti più ardua tale compenetrazione, introducendo argomenti laterali come l’essere figlio d’arte, la sopravvivenza della tradizione e tutto il parco complessi offerto dal lettino dello psicanalista. Di Geppy Gleijeses conosciamo il teatro di radice partenopea, così diverso dalle scelte esterofile e terzo-teatriste del figlio (comunque poi di ritorno in patria per mettere a punto un lavoro molto personale), del loro rapporto sappiamo solo quello che esce dalla performance, che include un frammento di intervista informale, la confessione di rivalità tutte private. È dunque come se nel complesso troppi piani si sommassero e, pur se per ciascuno si è in grado di ravvisare un’urgenza, l’impiego di un tessuto così stratificato – e tenuto insieme da elementi visivi e sonori così aggressivi – finisse per smussare gli angoli di una riflessione che qua e là si vorrebbe più folgorante.
E tuttavia forse questa serie di Discorsi punta in parte a registrare l’insistere di un’entropia interna a tutte le formulazioni intellettuali; forse quella perdita di energia, quella sorta di virulenza trattenuta (che in verità avevamo già ravvisato in Giallo) è una trama calcolata. Di certo la potenza in qualche modo discreta, inquietante, sibillina di questo lavoro lascia addosso la curiosità di seguire il discorso fino alla fine. Per poi ricominciare da capo.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Visto all’Angelo Mai Altrove Occupato, aprile 2015
DISCORSO CELESTE
ideazione Luigi De Angelis e Chiara Lagani
drammaturgia e costumi Chiara Lagani
regia, scene, luci Luigi De Angelis
musiche Mirto Baliani
immagini video ZAPRUDERfilmmakersgroup
con Lorenzo Gleijeses
e con la voce di Geppy Gleijeses
produzione E / Fanny & Alexander