Teatro nelle case: recensione di A Moscacieca, diretto da Edda Gaber e tratto da Tre Sorelle di Čechov.
Via di San Martino ai Monti. Suonare al citofono Perozzi Urbani alle 20:40 precise. L’androne signorile ci spinge presto nell’interno al primo piano, dove incontriamo gli altri avventori/spettatori. Nell’anticamera illuminata a stento dai lumini, attendiamo l’arrivo di un’ultima ritardataria, prima di essere ammessi alla prima stanza. Il teatro nelle case, come quello qui offerto da Monica Perozzi (in arte Edda Gaber, parte attiva del teatro degli anni Settanta romani) con A Moscacieca, sta tornando con una certa insistenza nelle programmazioni cittadine ed è un’esperienza in tutto e per tutto. Sai che la poltrona (o sempre più spesso sedia o panca o cuscino per terra) ti verrà tolta in favore di uno schema di fruizione inclusivo, immersivo, si scriveva qui qualche giorno fa, in cui anche le condizioni di abitazione di uno spazio di compresenza verranno trascinate in discussione, portandosi dietro, almeno in parte, anche il senso di ciò che vedrai.
Nella prima scena, imbandire una tavola di fronte a un camino spento è l’azione realizzata da due attrici (Monica Perozzi e Alessandra Caputo) al cospetto di una bambola di pezza, la «pupazza» il cui spostamento di stanza in stanza dovremo seguire, unica indicazione offerta. La severità di una si scontra con la disciplina dell’altra, ma è sempre Maša, la bambola, il bersaglio degli insistenti richiami all’ordine. Poi un giovane in divisa da ufficiale ottocentesco (Manuel Cascone) farà il suo ingresso imbracciando una chitarra, posando con un canto d’usignolo un apparente velo di quiete. Ma sotto quel velo, capiamo presto, Andrej nasconde un profondo male di vivere, un’indolenza sciocca e ottusa, un nichilismo che può provenire solo da una delusione capitale. Pochi passaggi di stanza in stanza, poche azioni, ora un lento pettinare capelli, ora un placido brindisi alla vodka alla salute del padre scomparso e dell’educazione che aveva impartito, pochi oggetti-simbolo montano vertebra per vertebra lo scheletro delle Tre Sorelle di Anton Čechov.
Nel tentare un’affascinante quanto avventurosa fenomenologia delle immagini poetiche, il filosofo francese Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio scriveva: «Nella casa, tutto si differenzia, tutto cambia. Dell’inverno essa riceve riserve di intimità, finezze di intimità. Nel mondo fuori della casa, la neve cancella i passi, confonde i pensieri, spegne i rumori, maschera i colori; si ha la sensazione che si stia mettendo in moto una negazione cosmica a partire dall’universale biancore. Il sognatore di case sa bene tutto ciò, sente tutto ciò, e attraverso la diminuzione d’essere del mondo esterno conosce un aumento di intensità di tutti i valori di intimità».
Ed è al cospetto di questa intimità che ci pone l’azione pensata da Monica Perozzi, in un’ambasciata di rimembranze miste, unendo quel gusto trasandato e non finito gelosamente pasoliniano col dialetto e le cadenze da marionetta abbandonata alla ripetizione a l’atteggiamento anti-mimetico che volentieri abbandona la declamazione del testo a fratture di esplorazione nell’intimo dell’arte e dell’essenza del recitare. Così a un emblematico e impostato refrain come «A Mosca! A Mosca!» si contrappone la scena finale in cui i quattro consumano una cena frugale, masticando rumorosamente e brindando alla salute di Čechov, quel «povero Antoša smembrato e maltrattato».
Ti muovi un po’ goffo, in cerca di tratti di parete dove poggiare la schiena, di angoli in cui poter sembrare più discreto, poter scomparire, assisti quasi immobile per non turbare il silenzio con micromovimenti improvvisamente così visibili, così esposti. Ché stavolta in mezzo all’azione ci sei tu, di tanto in tanto considerato dallo sguardo degli attori, quasi mai dimenticato, intruso di cui si tollera a fatica la presenza. Eppure assisti al transitare di fantasmi, presenze tenute in vita da allusioni minime e frasi interrotte a metà, ché completarle farebbe troppo male. Vedi di concentrarti sull’essenza fragile di questo controdiscorso, alla scoperta di caratteri che conosci, che ricordavi simili ma trovi qui riorganizzati in una struttura ellittica che tiene in vita la tensione di tutti gli avvenimenti. In casa sono rimasti solo in tre, le sbilenche e contratte elucubrazioni sull’insopportabilità della condizione attuale fanno riferimento al passaggio frenetico di quel gruppo di ufficiali e cadetti che Čechov aveva immaginato come motore drammaturgico, quella ventata di vitalità metropolitana sfrecciata nella vita di provincia e ora, qui, adesso, ormai passata, senza speranza alcuna. Allora il cuore della vicenda di Irina, Maša e Ol’ga, del loro fratello fallito Andrej, viene impastata in un’atmosfera sonnolenta e lugubre, una lunga veglia funebre per coscienze indurite dal gelo. Delle passioni lievi e della resistenza, dell’inerzia borghese e dell’utopia, della tragicommedia delle cose passate non puoi che limitarti a indovinare un’ombra, a cogliere un sospiro. Come giocando a moscacieca.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Prossime repliche 14 e 15 marzo ore 20,45
Per tutte le info
A MOSCACIECA
di Edda Gaber
con Alessandra Caputo, Manuel Cascone
Luci Gianni Melis
Costumi Alessandro Lai