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Servo per due. Pierfrancesco Favino a Foggia tra Bean e Goldoni

Servo per due, spettacolo diretto e interpretato da Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli, in scena al Teatro Giordano di Foggia. La recensione

 

Foto Fabio Lovino
Foto Fabio Lovino

Chi scrive il Teatro Giordano di Foggia lo conosceva da tempo, aveva più volte preso posto nella sala all’italiana tra l’oro, l’acquamarina e l’avorio che fanno da cornice al velluto delle poltroncine nei palchi o in platea, seppure sia la prima volta che queste pagine si trovano a raccontarne. Lo scorso fine settimana, con parterre da tutto esaurito per entrambe le serate, in scena c’è stato Servo per due, lo spettacolo debuttato la stagione precedente con la doppia regia di Paolo Sassanelli e Pierfrancesco Favino, qui anche interpreti insieme ai componenti del Gruppo Danny Rose.

La pièce è adattamento nostrano del testo inglese di Richard Bean One Man, Two Guvnors, a sua volta rifacimento di quell’ormai celeberrimo Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni con cui Giorgio Strehler consegnò alla storia insieme a se stesso Ferruccio Soleri e Lucio Morelli e che in tempi recenti non ha mancato di generare dibattito e riflessione per la rilettura di Antonio Latella. Questa però è un’altra storia, o meglio la storia è la stessa visto che la vicenda resta grossomodo immutata, non fosse per l’ambientazione e le dovute modifiche di contesto: un solo servitore affamato per due padroni e due coppie di innamorati tra confusioni, travestimenti e giochi di ruolo sino allo scioglimento finale. La trasposizione anni Sessanta di Bean, che miete ancora un successo indiscusso in Gran Bretagna, è ricollocata da Favino e Sassanelli in una Rimini del 1936 fatta di fondali dipinti e panchine in ferro battuto, ove l’ombra del Ventennio si impasta frusta alla conservazione della tradizione cui l’originale goldoniano di fatto appartiene. Lo slapstick cerca così amalgama col lazzo, le impostazioni artificiose da teatro di posa di inizio secolo incontrano gli accenni posturali di una delle maschere per antonomasia e la clownerie si frappone tra una canzonetta e l’altra riarrangiata in chiave swing e suonata dal vivo dall’arguzia strumentale e scenica dell’Orchestra Musica da Ripostiglio.

Foto Ufficio Stampa
Foto Ufficio Stampa

In primis c’è Arlecchino, o quello che ne rimane, in questo caso Pippo Passalagamba. Lombardo come tradizione vuole, sguarnito di maschera e del classico vestito colorato, conserva del canone alcune peculiarità, smorzate consapevolmente: la tendenza al disequilibrio, la camminata a tratti danzata, il piede a martello nelle interruzioni, lo sterno estroflesso a inarcare la colonna vertebrale e ancora la faciloneria, l’insaziabile brama di cibo, la ricerca piuttosto elementare dell’amore. Il Pippo-Arlecchino di Favino è, nonostante l’applicazione evidente, di fatto connaturato da una marcata “discrezione” – voluta o meno è difficile da stabilire –  che si fatica a ritenere possa passare come indimenticabile alle cronache, salvabile, a volerla salvare, solo se la si leggesse come una responsabile assenza di presunzione, la mancanza deliberata della tracotanza del confronto. L’interpretazione del protagonista, oltre ogni aspettativa, brilla piuttosto in un’altra declinazione della presenza scenica e ci offre una straordinaria capacità di improvvisazione e un’ottima prontezza di gestione e d’iniziativa nell’interazione con la platea. Decisivo in un allestimento in cui il meccanismo meta-teatrale è parte integrante della concezione strutturale delle pièce, al punto da costruirvi sopra un fraintendimento che terrà la platea sospesa sino alla fine. Per quanto la seconda parte risulti maggiormente scarica e faticosa da seguire, il tempo della rappresentazione vede collimare realmente tre piani cronologici: quello narrativo, quello reale e il piano storico, concretizzato dai richiami concettuali alla commedia dell’arte e poi dalle suggestioni del varietà all’italiana dei primi Novecento fra numeri, passerelle e vedette.

Un potpourri non da poco che tuttavia eliminato qualunque pregiudizio funziona, si accaparra il sorriso quando non cade nell’umorismo troppo immediato e restituisce chiaro e intellegibile come presupposto un grandissimo lavoro di preparazione insieme a una cura dei particolari, diremmo cinematografica, pienezza della dimensione non esclusivamente visiva che poco o nulla lascia al caso.

Marianna Masselli

Twitter @Mari_Masselli

Visto al Teatro Giordano, Foggia, Febbraio 2015

SERVO PER DUE
One Man, Two Guvnors
di
Richard Bean
tratto da Carlo Goldoni
tradotto e adattato da Pierfrancesco Favino, Paolo Sassanelli, Marit Nissen, Simonetta Solder
regia Pierfrancesco Favino, Paolo Sassanelli
con Gruppo Danny Rose: Bruno Armando, Gianluca Bazzoli, Haydée Borelli, Claudio Castrogiovanni, Pierluigi Cicchetti, Ugo Dighero, Anna Ferzetti, Giampiero Judica, Marit Nissen, Stefano Pesce, Pietro Ragusa, Marina Remi, Diego Ribon, Eleonora Russo, Fabrizia Sacchi, Paolo Sassanelli, Luciano Scarpa, Chiara Tomarelli, Thomas Trabacchi, Valentina Valsania
scene Luigi Ferrigno
costumi Alessandro Lai
luci Cesare Accetta
coreografie Fabrizio Angelini
canto Gabriele Foschi
musiche eseguite dal vivo Orchestra Musica da Ripostiglio: Luca Pirozzi, Luca Giacomelli, Raffaele Toninelli, Emanuele Pellegrini

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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