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Robert Lepage e la nuova epica orale di 887

Robert Lepage è andato in scena a Nantes con un’anteprima del nuovo spettacolo, 887. Recensione e approfondimento di Anna Maria Monteverdi

 

foto  Erick Labbe
foto Erick Labbe

È prima di tutto una straordinaria prova d’attore questo 887, il nuovissimo solo show con cui Robert Lepage ritorna a recitare sul palcoscenico dopo aver firmato le due regie di Jeux de cartes (Spade e Cuori) ancora in tour, e aver diretto il Ring di Wagner per il Metropolitan di New York, la cui versione per la Deutsche Grammophon diretta da Fabio Luisi e James Levine ha vinto il Grammy Award come miglior Opera registrata.

L’ Avant première di marzo a Nantes presso lo spazio Lieu Unique sold out da mesi, nel quadro della rassegna Oupalaï (hop-là in quebecchese) dedicata al Québec e che ha coinvolto una ventina di teatri nella Regione della Loira, anticipa il debutto definitivo che si terrà a Toronto a luglio, per le Pan Am Games. A settembre pare che lo spettacolo sia opzionato per Romaeuropa Festival. A questo proposito Lepage ci rivela che vorrebbe recitare il prologo in italiano, lasciando i sottotitoli per tutto il resto dello spettacolo. Il prologo, come da consuetudine nei “solo show” di Lepage, è una parte fondamentale, perché l’autore annuncia le motivazioni personali e talvolta intime o autobiografiche di una scelta tematica e prevede sempre un dialogo diretto col pubblico.

RICORDO, BIOGRAFIA E STORIA

Lo spettacolo 887, dall’indirizzo della via in cui Lepage ha vissuto con la famiglia in Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale, intima e insieme collettiva. La domanda da cui scaturisce lo spettacolo è: «À quoi nous sert-il de nous rappeler? De quelle façon le théâtre fondé sur l’exercise de la mémoire, est-il toujours pertinent aujourd’hui?».

foto  Erick Labbe
foto Erick Labbe

La memoria è innanzitutto un tema teatrale e specificamente attoriale, ed è proprio da qui che si parte: come spiega l’artista al pubblico, lo spunto per lo spettacolo gli venne da un episodio – vero o presunto che sia – riguardante la sua difficoltà a memorizzare un componimento poetico in occasione del Festival dei 40 anni della Poesia contemporanea in Québec. Il componimento Speak white (Parlez blanc) scritto da Michèle Lalonde nel 1968 parlava anch’esso di memoria, una memoria politica, la memoria delle vicende del Québec separatista. Il titolo del poema altro non è che l’ingiuria sprezzante rivolta ai franco-canadesi da parte degli inglesi. In qualche modo lo spettacolo a questo punto è già definito: un contesto storico e geografico di riferimento – che unisce, se non tutti, almeno quelli che conoscono la breve ma intensa stagione caratterizzata dal Fronte di Liberazione del Québec (FLQ) degli anni Settanta – e un racconto autobiografico, quello del giovane Lepage, terzo di quattro fratelli, figlio di un tassista e di una casalinga, che coltiva in giovane età la sua vocazione attoriale.

Alla sensazione di smarrimento di fronte alle numerose banche dati di cui ci circondiamo per archiviare il nostro vissuto tramite ogni genere di dispositivi, Lepage contrappone la memoria umana, associativa e immaginaria, con la sua labilità, con le sue falle, che nel suo continuo rielaborare i ricordi, riorganizzarli è quell’ombra indelebile che ci accompagna e ci plasma nel nostro cammino. Ed è su questo sguardo di oggi sulle vicende drammatiche del passato, personali e collettive, rivissute in scena come un flashback quasi in forma di “terapia psicoanalitica”, che lo spettacolo innesta il suo “patto” con lo spettatore. Lepage ci ha abituato al tema della memoria nei suoi spettacoli: ripercorrere a ritroso le vicende personali e comuni che hanno segnato vite e destini attraverso le lenti distorte e imperfette della memoria dà anche una chiave per interpretare l’oggi; da Le sept branches de la riviere Ota (su Hiroshima e il ricordo della bomba atomica cinquant’anni dopo) a La face cachée de la lune (sulla morte della madre) la memoria è qualcosa di vivo e dinamico, fatta di rimandi, persistenze, connessioni. La memoria cui guarda Lepage non è ovviamente solo quella d’archivio, delle fotografie e dei testi scritti: «La nostra società ha perso la sua memoria orale. Noi ci affidiamo sempre di più a documenti scritti o visivi per immortalare il passato, per archiviare le cose che ricordiamo, la nostra storia; e come risultato, la nostra memoria non distorce più i fatti filtrandoli, la qual cosa rende più difficile per la storia trasformarsi in mitologia…Le persone si dispiacciono della non affidabilità della memoria, ma dovrebbero esserne felici, e usarla come strumento creativo». (R. Lepage a colloquio con Rémy Charest, TCG 1995).
foto  Erick Labbe
foto Erick Labbe

IL TEATRO TECNOLOGICO

Con queste premesse non è difficile arrivare alla conclusione che in 887 il racconto della sua famiglia e della Révolution tranquille del Québec, passando attraverso il filtro soggettivo del narratore, diventa una ripetizione “creativa” della vicenda reale, con continue ramificazioni e diversioni, cioè variazioni, tutte a modo loro legittime. Ripetere a memoria a teatro, quindi, sembra suggerirci Lepage, rendendo contemporanea la lezione dell’epica, vuol dire rivivere e far rivivere una vicenda, far venire alla luce una situazione e da qui partire per ricrearla, prendendo come guida le parole, i volti che ci hanno maggiormente coinvolto e impressionato. Nel mondo dell’oralità il cantore usava, per aiutarsi nella memoria, il canto, il ritmo, la metrica, oppure scene disegnate, qua Lepage usa non più la tela ma uno schermo, un originale contenitore di immagini e una serie di webcam e varie altre strategie di “visioni mediate”.

887 ci dà ancora una volta la dimensione di un Lepage perfettamente in grado di trarre dagli strumenti della quotidianità tecnologica storie teatrali di straordinario respiro: gps, webcam, proiezioni fotografiche e video diventano utili strumenti nelle mani dello storyteller per evocare luoghi, situazioni e fissare volti del passato. Così mentre entra in scena chiedendo al pubblico, come fosse una normale prassi di servizio, di spengere il cellulare mostrando l’oggetto in questione, contestualmente mostra in proiezione numeri di telefono della sua rubrica, foto e indirizzi archiviati e memorizzati e che saltano fuori con un suo semplice e riconoscibile gesto sul touch screen del palmare. Abbiamo demandato al dispositivo elettronico le operazioni di memoria e il ricordo digitale ci può indurre a smettere di avere fiducia nella fragilità della memoria umana e preferire quella digitale, in fondo più precisa e accurata.

IN SCENA L’EDIFICIO DELLA MEMORIA

Nella finzione scenica l’unico numero rimasto indelebile nella mente del personaggio è appunto, un numero, quel 887 proiettato sullo schermo. Che si trasforma nel corso della storia, nelle foto della famiglia e nei ricordi visivi associati a quel numero, soprattutto quelli del padre attorno al quale ruota la storia in forma di accorato omaggio: prima bagnino, poi militare in Marina poi tassista. L’edificio ricostruito in forma di plastico in scena, poco più alto dello stesso Lepage, è una struttura mobile, scomponibile e in alcuni casi anche praticabile; come tipico dei suoi allestimenti scenografici “trasformisti”, vere scatole di invenzioni e di attrazioni (dalla macchina composta da 24 elementi di fibra di vetro coperta di alluminio capace di sollevarsi e ruotare a 360 gradi del Ring al dispositivo mobile a pianta centrale con trucchi dal sottopalco di Jeux de cartes) bastano pochi movimenti, una rotazione e un gran numero di tecnici e servi di scena dietro le quinte per avere davanti agli occhi diversi scenari in poco tempo. Cucina con arredo, con tanto di tavolo e frigo, sala con tv, ma anche interno di un taxi, un locale notturno, un fast food. Questi momenti hanno il fascino di una commossa rievocazione interiore: la memoria, esattamente come la scenografia che appare e scompare sotto gli occhi dello spettatore, è una scatola che si apre e si squaderna, dove tornano alla luce inaspettatamente dettagli insignificanti collegati a sentimenti personali e dove episodi centrali si perdono nell’oblio.

foto  Erick Labbe
foto Erick Labbe

Tra le teorie della memoria, a legarsi meglio al contenuto dello spettacolo sembra essere quella dell’engramma, o traccia mnemonica che lascia un’alterazione permanente nel sistema nervoso in seguito all’esperienza e all’apprendimento. L’engramma rappresenta la seconda di tre fasi che Richard Semon nel 1904 utilizzò per descrivere la memoria quotidiana: il primo, detto engrafia, nel quale le informazioni vengono codificate nel cervello, il secondo, chiamato engramma, che corrisponde a un cambiamento permanente del tessuto nervoso che conserva il ricordo dell’esperienza e infine il terzo momento, detto enforia, in cui si attua un processo di recupero delle informazioni.

Lepage sembra drammatizzare proprio il processo di memorizzazione e visualizzare nella scenografia, l’antica arte mnemotecnica detta anche palazzo della memoria che utilizza come strategia di ricordo, le immagini di un luogo familiare associato a un elemento da ricordare. Questa tecnica richiede di richiamare alla mente luoghi che conosciamo molto bene: la nostra abitazione, una via che percorriamo tutti i giorni o un luogo di cui ricordiamo anche i minimi particolari.

IL TEATRO-CINEMA E L’ATTORE

Man mano che Lepage, da vero storyteller racconta (e ricorda) i dettagli delle famiglie che la componevano, il plastico del condominio si anima nelle sue sei finestre con balconi grazie a minuscoli video che annunciano le attività e le vite che si svolgono all’interno: una famiglia di immigrati, un pianista che suona sempre Chopin e vive con la madre dopo un incidente, la casalinga bigotta del piano di sopra e la portinaia di facili costumi proprio sotto casa Lepage, infine la signora Penny, inglese, che pur di star via da casa, trova lavoro come cameriera in una sala da tè. Così la sua famiglia, con un fratello maggiore che fa la scelta dell’inglese come lingua, e il condominio di rue Murray, rappresentano in miniatura il Quebec, con la stessa percentuale di francofoni, inglesi e immigrati, attraversata sin dagli anni Sessanta da tensioni e contraddizioni, rivendicazioni e richieste di riconoscimento politico. I personaggi sono presenti in forma di piccole bambole che vengono mosse dallo stesso Lepage a raccontare le relazioni e le loro storie fatte di drammi ordinari. Dentro queste stanze si forma anche la curiosità di Lepage per il teatro, simboleggiato significativamente da un racconto casalingo fatto con le ombre.

foto  Erick Labbe
foto Erick Labbe

La memoria è letteralmente evocata in forma di stanze e camere-scatole e porta Lepage a rievocare episodi della giovanile vocazione teatrale, associati a momenti di bellezza (quando per la prima volta sentì recitare Gli uccelli di Aristofane) e a momenti dolorosi e sanguinosi (gli attentati a firma del FLQ, la Crisi di Ottobre e il clima violento del Québec degli anni Settanta). Le note vicende del Front de Libération du Québec, l’organizzazione separatista che aveva come manifesto il volume di Pierre Vallières Negri bianchi d’America (scritto in carcere a New York nel 1966 col significativo sottotitolo Autobiografia precoce di un “terrorista” del Québec) responsabile del sequestro e uccisione del ministro Pierre Laporte (1970) appaiono in scena come flash, disturbi sonori, rappresentazioni di fughe e di paure.

Alcuni momenti teatrali strappano l’applauso a scena aperta: il discorso in Canada di De Gaulle nel luglio del 1967 passato alla storia per l’enfasi che diede alla frase «W le Québec libre», con il quale il presidente sembrò sposare la causa nazionalista, viene raccontato con un’azione da teatro di figura con aggiunta di tecnologie. Lepage muove una piccola bambola nascosta nel taschino della giacca e contemporaneamente la riprende con una webcam ingigantendola in proiezione. Ancora, esilarante la richiesta di aiuto di Lepage “smemorato” e in crisi esistenziale e artistica all’amico attore, temporaneamente in un programma di recupero per alcolisti: il monologo avviene tramite una segreteria telefonica che però scatta sempre troppo presto. Ricco di dialoghi che sembrano rubati al cinema, prospettive teatrali come fossero inquadrature, Lepage in 887 ci propone ancora una volta sul palcoscenico, una perfetta sovrapponibilità tra teatro e cinema a cui ha abituato, sin dai tempi di Poligraphe (1989), il pubblico internazionale.

Ma tutto lo spettacolo sembra in realtà quasi preparatorio al momento più alto, intenso e vibrante che lascia letteralmente senza fiato la platea: la recitazione, sotto un potente cono di luce bianca che annulla tutto il resto, del poema Speak white. Qui si concentrano la potenza inaspettata di una voce appassionata e drammatica e la forza di una scrittura teatrale che annuncia il senso, la necessità e il valore politico della memoria e che incarna contemporaneamente l’urlo di una generazione a cui non resta altro che “ricordare con rabbia”.

Anna Maria Monteverdi

887
Ideazione, messinscena e interpretazione Robert Lepage
Direzione artistica e ideazione Steve Blanchet
Assistenza alla regia Adèle Saint-Amand
Musica originale e idea sonora Jean-Sébastien Côté
Disegno luci Laurent Routhier
Idea visiva Félix Fradet-Faguy
Produzione Ex Machina commanditée par le programme Arts e Culture de Toronto 2015 Pan Am e Parapan Am Games

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