Hotel Belvedere, il testo di Ödön von Horváth, portato in scena al Teatro Vascello con la regia di Paolo Magelli. Recensione
Sono molte e inquietanti le risonanze tra il continente disegnato da Ödön von Horváth in Hotel Belvedere e quello in cui viviamo oggi. A più di novant’anni di distanza (il testo è del 1923), con un’altra Guerra mondiale nel mezzo, le tensioni non sono di certo della stessa natura, ma lo scrittore austriaco – qui come in altri testi – mette a punto una geografia umana in grado di tracciare una linea orizzontale che attraversa il Novecento realizzandone un profilo in cui è impossibile non riconoscersi. Certo, l’ambientazione e i tratti specifici sono quelli di nobiltà decaduta e borghesia mitteleuropee, in particolare quella con un piede nelle utopie dell’Impero Austro-Ungarico e l’altro già nelle smanie che avrebbero dato forma alle ideologie nazionalsocialiste. Proprio questo termine, «smanie», torna spesso nel testo di von Horváth, declinato sugli istinti sessuali e sulle brame di potere da uomo a uomo, poi da uomo a donna, poi da donna a uomo, nella costruzione di un apologo in cui gli archetipi della supremazia prendono forma poco a poco e con un equilibrio quasi sempre impeccabile. Il direttore del Metastasio di Prato Paolo Magelli raccoglie sull’ampio palco del Teatro Vascello di Roma sette interpreti caratterizzati con fermezza, ironia e un’ottima vena grottesca, affidando alle scene di Lorenzo Banci (grande fondale bianco retroilluminato, tavolini di marmo con sedie dallo schienale sagomato a violino, poche poltrone e divani) il compito di stilizzare un hotel dismesso. I personaggi si trovano così in una sorta di foro romano in rovina, con grandi spazi vuoti offerti ad azioni marcatamente viscerali, tra rigurgiti, violenze fisiche e un continuo stappare e bere champagne, maneggiando e sgranocchiando fiori veri e divorando addirittura un’intera carta geografica dell’Europa prebellica in un efficace finale del primo atto.
Al desolato Hotel Belvedere, dove la baronessa Ada von Stetten alloggia insieme a tre amanti, giungono un commesso viaggiatore, il fratello della baronessa Emanuel al verde per aver perso tutto al gioco e la giovane Christine, messa incinta da Strassen (uno degli amanti) l’estate precedente, giunta a reclamare amore, attenzioni e paternità. La ragazza cadrà vittima di una perfida calunnia dei cinque uomini intenti a cacciarla via; questi, sorpresi poi dalla notizia di una sua cospicua eredità, finiranno per litigarsela a scapito della baronessa, trattata come un pezzo di carne ormai scaduto.
Il testo soffre in parte di un primo atto più sonnolento e caricato da Magelli (anche traduttore) di alcuni cliché e toni sgradevolmente gridati, ma il tutto si assesta nel transito verso il secondo atto dedicato al crudele complotto, che – complice il fiume di vino consumato in scena – scivola dentro una cupa e disturbante atmosfera à la de Sade, mettendo in primo piano il degrado umano in un’esplosione fisica tra risate sguaiate e piogge di cubetti di ghiaccio. L’epilogo del terzo atto pulisce il palco dai resti del festino e si ripiega su un’atmosfera più rarefatta, alla luce di grossi fari che incombono dal soffitto, mentre un sipario rosso si chiude con inesorabile lentezza.
La messinscena di Magelli si avvale di un gruppo affiatato di attori spiegato su un’ampia gamma di registi, nel quale spiccano Fabio Mascagni (misurato ma spregevole, inetto Strasser) e Valentina Banci (svettante baronessa di un decadente squallore), facendo un uso a tratti approssimativo e sciatto delle sviolinate come sempre un poco invadenti di Alexander Balanescu, indugiando a volte troppo sui toni del teatro di una volta, ma mettendo in campo ritmo sincopato e un crudele delirio visivo per una volta non troppo compiaciuto e in grado di osare davvero. Della missione poetica di von Horváth, che cita Hölderlin e getta le basi per alcune allegorie di Heiner Müller, resta viva così l’impronta più oscura, quella vena veggente che segna il presagio di nuovi orrori, dando a personaggi all’apparenza bidimensionali l’inquietante subcoscienza di un’orda di zombie invasata da una memoria condivisa che ne ha segnato i destini. L’Europa è morta. Evviva l’Europa.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Visto al Teatro Vascello – marzo 2015
HOTEL BELVEDERE
di Ödön von Horváth
traduzione Paolo Magelli
regia Paolo Magelli
scene Lorenzo Banci
costumi Leo Kulaš
luci Roberto Innocenti
musiche Alexander Balanescu
dramaturg Željka Udovičič
con Francesco Borchi, Daniel Dwerryhouse, Marcello Bartoli, Fabio Mascagni, Mauro Malinverno, Valentina Banci, Elisa Cecilia Langone
produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana