Apre il Festival Equilibrio lo spettacolo Katlehong Cabaret, della compagnia Via Katlehong Dance di Johannesburg. Recensione
Katlehong è una township sudafricana, risultato del post-colonialismo dominato dall’apartheid; si tratta di un sobborgo di Johannesburg affetto da problemi derivanti dall’emarginazione e dalla povertà. È qui che, negli anni Cinquanta, nasce la pantsula: quando barriere e confini troppo stretti «mettono a rischio la libertà e il cuore dell’uomo», questi non può che tornare al corpo, lasciando che i suoi movimenti puntino alla libertà. Pantsula è una cultura comunitaria, una danza di strada, un mezzo di resistenza politica. Nella forma più tradizionale, ritmi sincopati e rapidissimi movimenti della parte inferiore del corpo richiamano il charleston e il tip-tap, mentre le forme più attuali sono influenzate dall’hip-hop, in particolare dallo stile popping and locking, e dalla breakdance.
Inizialmente, le danze pantsula erano riservate agli uomini, che si sfidavano in vere e proprie dance battle di gruppo in strada. I diversi gruppi, accomunati da omogenei stili di movimento e costumi eleganti, hanno via via lasciato il posto a una maggiore celebrazione della creatività del singolo e della sua identità. A partire dagli anni Ottanta la pratica si è aperta alle donne e con la fine dell’apartheid (1994) la funzione sociopolitica della pantsula è evoluta ulteriormente come strumento di sensibilizzazione contro l’AIDS, per esempio, ma anche come mezzo educativo: ancora una volta e ancora diversamente una pratica sociale.
Negli ultimi anni le battle sono diventate competizioni ufficiali, mentre questa particolare cultura coreografica ha continuato ad arricchirsi di nuove forme neo-tradizionali come il gumboot – una forma di body percussion basata sulla percussione degli stivali di gomma tipici degli operai delle miniere d’oro in cui lavoravano gli abitanti di Katlehong e il cui risultato è curiosamente simile alla danza popolare tirolese Schuhplattler e allo steps. Infine, si è compiuto un processo di «artificazione», per usare un termine coniato da Nathalie Heinich e Roberta Shapiro, simile a quello avvenuto in Europa, nei decenni scorsi, con l’hip-hop – ovvero il passaggio da pratica sociale a pratica propriamente artistica – che ha portato alla produzione di spettacoli teatrali.
Da questa storia e da questa tradizione proviene Via Katlehong Dance, compagnia attiva dal 1992. In Katlehong Cabaret, produzione del 2011 oggi in scena all’Auditorium Parco della Musica di Roma per il Festival Equilibrio, sette virtuosissimi danzatori, guidati dal maestro di cerimonie narratore/danzatore/musicista Thembinkosi Hlophe e dalla voce della cantante Nomathamsanqa Baba, fondono ulteriormente lo stile pantsula con quello del cabaret, coinvolgendo e accompagnando il pubblico in una narrazione che trasmette la storia e il senso di questa tradizione, ma anche il senso di una cultura programmaticamente aperta, che inneggia al futuro e alla libertà. Ciò che questa cultura promuove è la dissociazione tra tradizione e condizione sociale e il messaggio è espresso chiaramente in ogni momento dello spettacolo.
Katlehong Cabaret è un vero e proprio inno al potere del corpo, strumento politico e di libertà. La scena è occupata da pochi oggetti di uso comune: cassette della frutta in plastica, un bidone per scaldarsi, degli elmetti da lavoro. Dalle quinte e dalla platea tutti gli artisti raggiungono il palco e con la loro energia esplosiva trasportano il pubblico intero, molto partecipativo e coinvolto, a Katlehong.
La drammaturgia, scandita in una decina di quadri che affronta diversi aspetti delle danze pantsula e della vita nel sobborgo, è di fatto un viaggio nella comunità della township attraverso il susseguirsi di danze e canzoni, individuali e di gruppo, secondo la struttura “a numeri” del cabaret.
In particolare attraverso il gumboot, i movimenti della danza narrano le gestualità della vita quotidiana, quella del pericoloso lavoro alla vicina miniera d’oro. Nello spettacolo, tuttavia, trova ampio spazio anche una vena malinconica e nostalgica: la tristezza per i momenti più duri dell’esistenza è accompagnata dalle lunghe assenze dei propri cari, spesso costretti a emigrare; così una canzone d’amore si canta, a distanza, per raggiungere la persona amata. La voce calda della cantante, interprete anche di una bellissima versione di Ain’t no Sunshine, accompagna le danze fuse alle voci maschili. Lo spettacolo si chiude dopo settanta minuti in cui il pubblico non smette quasi mai di applaudire e di tenere il tempo. Tuttavia la serata non sarà finita senza un ultimo colpo di scena, ironico e divertente: uno sfrenato can-can danzato da tutta la compagnia, un ultimo regalo prima di tornare, felici, a casa.
Gaia Clotilde Chernetich
Twitter @gaiaclotilde
visto all’Auditorium Parco della Musica, Roma, Febbraio 2015
KATLEHONG CABARET
regia e coreografia Via Katlehong Dance, Hlengiwe Lushaba
con Nomathamsanqa Baba, Thembinkosi Hlophe, Steven Faleni, Vusumuzi Mdoyi, Madlenkosi Fanie, Vuyani Feni, Tshepo Nchabeleng, Lemi Fudumele, Mpho Malotana