Tra le molteplici offerte teatrali, sul Taccuino Critico si appuntano segni di sguardi diversi che rispondono a un’unica necessità: osservare, testimoniare, dar conto dell’espressione pura, del piccolo e grande teatro…
IL PAZIENTE
sceneggiatura Madame Rebiné
sguardo esteriore Didier Pons, Ferruccio Merisi
illusioni magiche Jérôme Montealegre
video Alessandro Martinello
visual Laura Fanelli
costumi Ines Artusi
luoghi di residenza La Conserverie, Mix’Art Myrys,
La Grainerie, Balthazar, Scuola sperimentale dell’attore, MaMiMò, Tam Teatro
con il sostegno di Envie d’agir, Region Midi Pyrénées
creazione 2012
Siamo in ritardo. A volte restiamo indietro senza perdere però quello che la scena ci offre, per poter attestare un passaggio da non dimenticare, anche se avvenuto a distanza di tempo. Come quello de Il paziente della compagnia Madame Rebiné composta da tre ragazzi formatisi in diverse scuole di circo, da Berlino a Toulouse passando per Montpellier e Pordenone, dando vita nel 2011 a questo ensemble all’insegna «dell’amicizia, alla ricerca di una condivisione disinibita, intima, coinvolgente, generosa, poetica e divertente». Lo spettacolo è stato presentato nello spazio delle Carrozzerie n.o.t dove, ancor prima di entrare in sala, ci accorgiamo che il clima della serata sarà diverso: molti bambini corrono nel foyer, giocano, bevono succhi di frutta serviti per l’occasione, riempiendo l’ambiente di scalmanata partecipazione. Saranno loro gli spettatori più numerosi di una storia che poi tanto allegra non è. Sul lettino di una camera di ospedale riposa ronfando il vecchio Claude (Alessio Pollutri) vittima di una malattia al colon e affidato alle terapie del maldestro Dott. Centi (Andrea Brunetto) e della sua assistente Jhenny (Max Pederzoli) alta e robusta infermiera. La cura del male che affligge il paziente sarà somministrata attraverso misture di circo, teatro, musica e danza, senza l’utilizzo di parole ma di simboli, tali da rendere questa mimica silenziosa un linguaggio universale comprensibile a tutti e privo di controindicazioni. I fiori affollano e intasano le viscere del nostro povero Claude, visibili grazie alla strampalata colonscopia del dottore e della sua assistente che infine li farà innamorare l’uno dell’altra. Madame Rebiné esorcizza il male e offrendoci l’alternativa della possibilità ci rende capaci di mutare le sofferenze del reale: crediamo allora in un paziente malato ma acrobata, in un’infermiera che canta in sala operatoria e siamo pronti così ad affidare i nostri dolori alle mani di un chirurgo mago e giocoliere.
Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri
Carrozzerie n.o.t, Roma, gennaio 2015
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NUOVI MONDI
regia Yamila Suarez Filgueira
con Marilena Muratori e Silvia Torino
produzione Teatrino del Grano e dall’Associazione Culturale Arteattiva
Di ritorno allo Studio Uno per trovare Nuovi Mondi, una piccola produzione dalle forti tinte malinconiche. Una figlia (Silvia Torino) si mette in cerca della madre (Marilena Muratori) che l’ha abbandonata e che «non avrebbe mai immaginato di trovare lì», nei bassifondi di chissà quale città, stipata in una minuscola baracca tirata su con pezzi di riciclo e colma di ciarpame. Mentre sull’arco che incornicia la piccola scena si proiettano le frasi del suo inconscio, la giovane le si avvicina timidamente, tenta un modo per entrare in contatto con lei, la quale ormai sembra addirittura aver abbandonato il parlato in favore di una lingua tutta mugolii e vagiti e delega ogni interazione a squallidi pupazzi animati alla bell’e meglio. Sappiamo e sapremo pochissimo del legame che lega questo minuscolo nucleo famigliare: la madre non intende fornire alla figlia alcuna giustificazione all’abbandono, fuorché un profondo bisogno di libertà. Insieme alle tenui note d’ambra delle luci, le note della fisarmonica – suonate dal vivo e che diventano poi un leitmotiv dai diffusori – assegnano al tutto uno straziante sottofondo di nostalgia che culla e insieme tormenta lo spettatore. Arduo è il compito che l’opera si assegna, di raccontare la complessità di un così denso nodo di sentimenti senza quasi far uso della parola e delegando al movimento, alla musica e alla lettering animation la responsabilità di fare al contempo racconto e ragionamento. Tuttavia i tre segni portati avanti – pur con l’aiuto di una pregevole ricercatezza nei costumi – non si rivelano sufficientemente cesellati da rendere solida una partecipazione tra le interpreti e con il pubblico. Preso forse troppo alla leggera l’uso del teatro di figura, all’affascinante sfida di una tale rarefazione drammaturgica finisce per mancare la fermezza di una coreografia dei gesti meno approssimativa.
Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982
Teatro Studio Uno, Roma, febbraio 2015
BILAL
regia Annalisa Bianco
dal libro Bilal – Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti
con Leonardo Capuano
direttore di produzione e disegno Luci Matteo Marsan
organizzazione Claudio Cadario
foto di scena Christian De Santi
riprese video FROG
Produzione Egumteatro, in collaborazione con il Centre Culturele GAMBIDI di Ouagoudagou (Burkina Faso), con Lo Stanzone delle Apparizioni – Teatro Alfieri e la Regione Toscana- Sistema Regionale per lo spettacolo
Quanto costa una vita? Se lo chiede Bilal, se lo chiede chiunque abbia una minima coscienza di ciò che sta avvenendo a chi perde il proprio nome lungo un viaggio ignoto, disperato. Quanto costa una vita? Beh, in Africa ha un prezzo ben definito, l’ha scoperto Fabrizio Gatti, giornalista de L’Espresso che qualche anno fa si è finto migrante per attraversare il Mediterraneo e venire in Italia, viaggio di ritorno travestito da viaggio di andata, scoprendo pratiche infami e una sorta di burocrazia dell’aberrazione. Ché l’ordine, in fondo, fa comodo in tutti gli ambiti. Bilal è il nome del protagonista e del libro reportage tratto da questi racconti (Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Rizzoli, 2007), ma anche il nome dello spettacolo che ne ha tratto Annalisa Bianco, regista per Egumteatro, con in scena un solo attore: Leonardo Capuano.
La fase scenica rispetta l’ordine del viaggio, quello dall’Africa sahariana fino alle coste italiane, attraverso il quale Gatti ha scoperto il confine tra l’umano e il disumano, quello che tutti i giorni le immagini ci propongono e che non siamo più in grado di riferire alla nostra vita se non per rigetto, se non considerando il migrante “altro”, invece che specchio di sé stesso. E invece Gatti l’ha fatto, si è chiesto cosa spingesse a un viaggio impossibile e si è immedesimato al punto di diventare Bilal, esserlo nella pratica e nell’essenza, caricarsi allora il peso delle nostre percezioni più distorte e farne racconto, davvero, di ritorno. Lo spettacolo di Bianco è un monologo (la ricordiamo alle prese già con Il giocatore di Dostoevskij con Massimiliano Poli o Bellas Mariposas di Sergio Atzeni con una energica Monica Demuru) capace di costruire un’atmosfera grazie alla presenza di un attore intenso come Capuano, grazie alla scena spoglia con solo alcune valigie a luci e musica ben dosate perché l’interezza della proposta non si prestasse a pertugi di distrazione. Se davvero si può dire che del racconto sappiamo tutto perché tutto vediamo, quando esso ha modo di passare in veste e parole d’attore in un teatro ecco che scopriamo come il teatro sappia fare quell’informazione sensibile ormai impermeabile nei canali mediatici. Se allora il teatro civile, spesso restio al passaggio in arte, mantiene una necessità espressiva, è nella capacità di restituire una materia fin troppo nota, come se così nota non fosse. Insomma, quanto costa una vita? Quanto una costa, costa, la vita.
Simone Nebbia
Twitter @simone_nebbia
Teatro India, Roma, febbraio 2015