La Serra di Harold Pinter diretto da Marco Plini, la recensione.
“Like a river flows surely to the sea / Darling so it goes / Some things are meant to be”: è la voce di Elvis Presley a congedare il pubblico, al termine de La serra. Sentire risuonare tra le poltrone del Teatro Metastasio di Prato Can’t Help Falling in Love ha un effetto straniante e surreale: non c’è infatti alcuno spazio per l’amore nelle due ore di questo dramma di Harold Pinter, ma soltanto per i feroci soprusi perpetrati tra le mura di un ospedale psichiatrico. Ascoltare questo brano mentre uno dei personaggi, Gibbs, sorride compiaciuto di se stesso sembra piuttosto un invito a una placida rassegnazione, a una pragmatica accettazione della realtà. «Certe cose sono destinate a essere così»: tutto procederà per il meglio, nulla potrà turbare l’ordine delle cose e il naturale ricambio generazionale – o una provvidenziale strage – saprà ricompensare chi si sia dimostrato devoto ai meccanismi del potere. È l’ironia la cifra scelta da Marco Plini nella messa in scena di un testo tra i meno noti del premio Nobel 2005: un taglio satirico che, brillantemente applicato nel finale, è però il risultato di un’operazione a tratti troppo aperta al farsesco.
Scritto nel 1958 ma tenuto celato dal suo autore fino al 1980, La serra contiene in nuce tutti i temi cari al drammaturgo inglese: l’analisi spietata delle dinamiche oppressive nascoste nella quotidianità, il perdurante senso di un’incombente minaccia, la corrosiva denuncia di matrice lefty mossa alle istituzioni. All’interno di un manicomio eufemisticamente definito «convalescenziario» o «casa di riposo» si dipana una vicenda dai contorni gialli: Roote, mediocre direttore dell’ospedale, incarica il suo pedante vice Gibbs di indagare sullo stupro di una paziente – freddamente rinominata 6459 – e sulla risultante nascita di un bambino. In questo esile intreccio si inserisce un gruppo di personaggi rigidamente ordinato in una gerarchia paramilitare che tuttavia, prima ancora che professionale, è umana. L’universo di Pinter è d’altro canto quello hegeliano dei servi e dei padroni: un mondo dove ciascuno si trova, più o meno consapevolmente, a interpretare un ruolo duplice, da indifesa vittima può rapidamente mutare in persecutore, da elemento base nella piramide sociale può altrettanto improvvisamente trasformarsi nel suo vertice. Se nelle opere più note di Pinter – valga a titolo di esempio Il ritorno a casa recentemente messo in scena da Peter Stein – questa dialettica è giocata in un ambiente familiare e domestico, ne La serra essa si svolge all’interno di uffici e stanze dei bottoni, assumendo una valenza prettamente politica volta a scoperchiare lo squallore o addirittura la brutalità che si celano dietro gli stanchi rituali burocratici. Un testo dalle implicazioni dirompenti che tuttavia, nelle mani di Plini, risulta depotenziato. Ovattata è la voce di Roote quando si trova all’interno del suo ufficio, reso nella scenografia di Claudia Calvaresi da una teca di cristallina trasparenza posta come un monolite al centro del palco: e ovattata, quasi in sordina, risulta essere la volontà accusatoria di Pinter nei confronti di un sistema vacuo e ciò nonostante vessatorio.
I celebri dialoghi pinteriani, così vicini al nonsense di Beckett, ben si prestano a letture che ne mettano in luce gli aspetti più esilaranti, ma Plini sembra in alcuni momenti calcare la mano: l’ingresso del factotum Tubb in costume da gallo risulta fin troppo clownesco e Roote vira dall’inettitudine a un’eccessivo infantilismo. A non convincere è soprattutto l’ingenuo Lamb, reso sulla scena come un ragazzo con evidenti disabilità intellettive: la voce fortemente alterata e l’andatura goffa e impacciata ne veicolano un’immagine fastidiosamente caricaturale e l’elettroshock a cui è sottoposto non suscita né rabbia né compassione.
Di maggiore efficacia sono i segmenti in cui Plini si concede di lavorare su toni più drammatici: il tentativo di seduzione di Cutts su Gibbs, sfociato in un accesso di fredda rabbia di quest’ultimo, è una finestra socchiusa sulla cronica violenza dell’uomo sulla donna, e la pioggia di bianchi fogli sul finire del secondo atto è metafora del crollo di un mondo, destinato tuttavia a rigenerarsi identico a se stesso. Nulla si crea e nulla si distrugge nel microcosmo della serra pinteriana: qualcosa può trasformarsi – ad esempio chi detiene il potere– ma si tratta di una minima variazione su una melodia secolare quanto il volto del vecchissimo ministro Lobb, garante di un sistema ancestrale. Del resto, come canta Elvis, some things are meant to be.
Alessandro Iachino
Visto al Teatro Metastasio, Prato, febbraio 2015
LA SERRA
Di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Marco Plini
con Mauro Malinverno, Valentina Banci, Luca Mammoli, Fabio Mascagni, Giusto Cucchiarini, Francesco Borchi, Elisa Langone
scene e costumi Claudia Calvaresi
musiche Franco Visioli
luci Fabio Bozzetta
assistente alla regia Thea Dellavalle
foto Lorenzo Porazzini
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio Stabile della Toscana